L’altro ieri, il premier Mario Draghi ha firmato il decreto con cui consente alla RAI di scendere sotto il 51% della controllata RAI Way, di cui attualmente detiene il 65% del capitale. La decisione ha scatenato immediate polemiche. Anzitutto, l’Usigrai, cioè il sindacato dei giornalisti della TV di stato, ha commentato negativamente la decisione, sostenendo che il governo da anni sottrae risorse all’azienda non erogando del tutto il canone pagato dagli abbonati e dopodiché crea un “buco” di bilancio che cerca di ripianare con la vendita di asset.

Sul piano politico, è Michele Anzaldi di Italia Viva e segretario della Commissione di Vigilanza sulla RAI a impuntare i piedi, lamentando l’assenza di “trasparenza” nell’operazione. Il deputato renziano ha chiesto di conoscere le finalità di utilizzo dell’eventuale ricavato della vendita.

Di cosa si occupa RAI Way

Cos’è RAI Way? Si tratta della società che possiede i ripetitori della TV di stato sparsi su tutto il territorio nazionale e che consentono agli utenti di ricevere il segnale. Già nel 2014, EI Towers cercò di lanciare un’offerta su di essa, ma allora fu proprio il governo Renzi a bloccarla, dichiarando che le torri di trasmissione siano un asset strategico. In realtà, vi fu anche una questione squisitamente politica: EI Towers risultava controllata a maggioranza da Mediaset, l’azienda di Silvio Berlusconi, a quel tempo uno dei leader dell’opposizione. Matteo Renzi temeva di essere accusato di “svendere” un asset pubblico per “inciuciare” con Forza Italia.

Oggi, però, EI Towers è controllata al 60% dalla società di gestione del risparmio F2i, guidata da Renato Ravanelli. Il restante 40% è nelle mani di MFE, la nuova denominazione di Mediaset. L’eventuale integrazione con RAI Way creerebbe un colosso di oltre 2 miliardi di euro di capitalizzazione, se è vero che il solo valore in borsa della società pubblica supera attualmente 1,4 miliardi di euro.

E’ evidente che il decreto Draghi per consentire alla RAI di scendere fin sotto il 51% della controllata sia un modo per avallare un’eventuale integrazione con EI Towers. Quest’ultima, poi, è partecipata al 14% da Cassa depositi e prestiti, socio fondatore. Di fatto, la componente pubblica nell’eventuale società che nascerebbe dalla fusione resterebbe forte.

A cosa punta il decreto Draghi?

La spiegazione che ne dà Usigrai, infatti, appare poco convincente. Vendere parte di RAI Way per pagare i debiti della controllante non sarebbe un’operazione finanziariamente sensata. E’ vero, alla fine del 2020 Viale Mazzini ha chiuso il bilancio con un debito di ben 606,4 milioni di euro, un’enormità per un’azienda che a stento riesce a pareggiare i conti. Tuttavia, RAI Way è una gallina dalle uova d’oro. Ad esempio, sempre nel 2020 ha chiuso con un utile netto di 64 milioni, staccando a favore della RAI un dividendo di 41,2 milioni.

A fronte di questi incassi, gli oneri finanziari hanno ammontato sui 16 milioni. In pratica, il debito costa due volte e mezzo in meno di quanto RAI Way riesce a fruttare alla TV di stato. Se anche azzerassimo il primo e i relativi costi, negli anni ci ritroveremmo bilanci in peggioramento per via dei minori dividendi incassati dalla RAI. Quanto si ricaverebbe dalla discesa sotto il 51% del capitale? Dipende fin dove si vuole arrivare. Fermandosi al 49%, entrerebbero a Viale Mazzini più di 220 milioni. Per azzerare il debito, invece, la RAI dovrebbe scendere fin quasi al 20%.

C’è da dire che il decreto Draghi potrebbe avere altre premesse: EI Towers non comprerebbe mai parte di RAI Way, se l’azionista pubblico continuasse a detenere la maggioranza assoluta del capitale. D’altra parte, un’integrazione tra le due società consentirebbe la nascita di un unico gestore delle torri di trasmissione con tanto di economie di scala e possibili benefici contabili e strategici.

In sostanza, la RAI possederebbe una quota minore di una società più grande, più efficiente e maggiormente redditizia. E’ una scommessa dall’esito incerto, sebbene le polemiche di questi giorni nascano perlopiù dalla difesa corporativa di un soggetto pubblico elefantiaco, incrostato da decenni di commistione con la politica e da una iper-sindacalizzazione paralizzante.

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