In rallentamento ad aprile l’inflazione nell’Eurozona dal +1,3% al +1,2% su base annua, mentre quella “core” è stata di appena lo 0,7%, in calo dal +1% di marzo. Sono brutte notizie per una BCE che punta a un target di poco inferiore al 2% e che non raggiunge ormai da ben 5 anni, nonostante abbia battuto le tendenze deflattive degli anni passati. Gli stimoli monetari, che formalmente dovrebbero giungere a fine corsa a settembre, di questo passo potrebbero prendersi qualche mese in più prima di uscire di scena, per non parlare del primo rialzo dei tassi dal 2011, che si allontanerebbe ancora, visto che sarebbe difficile ipotizzare una stretta in queste condizioni.

La bassa inflazione sembra essere diventato un fenomeno strutturale presso le economie avanzate e ciò desta allarme tra le banche centrali principali, frustrate da anni di tentativi a vuoto di centrare i rispettivi target.

Qualcuno potrebbe chiedersi perché mai un istituto debba per forza raggiungere il 2% di inflazione e non possa, ad esempio, accontentarsi di un 1%. La risposta è complessa e riguarda, anzitutto, la credibilità dello stesso: se non ti dimostri capace di tenere fede a un impegno, non sei credibile nell’annunciare le tue mosse. Se, come suggerisce qualche “falco”, la BCE ripiegasse su un target più alla portata, i mercati potrebbero interpretarlo come un segnale di resa, anziché di pragmatismo, con la conseguenza che finirebbero per raffreddare le aspettative d’inflazione a livelli ancora più bassi.

Ma c’è una questione che occupa le menti dei banchieri centrali di tutto il mondo: il debito pubblico. La sua sostenibilità è direttamente legata sia ai tassi di interesse che all’inflazione. Il rapporto debito/pil, infatti, tende a salire quando i tassi sono più alti della crescita nominale dell’economia. Quest’ultima è pari al pil + inflazione. Facciamo un esempio: oggi come oggi, la crescita nominale del pil italiano non arriva nemmeno al 2,5%.

Questo è il tasso-limite a cui il debito pubblico dovrebbe crescere per mantenersi inalterato rispetto al pil. Tale percentuale va rapportata al pil stesso ed è frutto della somma tra avanzo primario e spesa per interessi. Con tassi in salita, a crescere è quest’ultima voce, rendendo necessario un avanzo primario più alto, ovvero un taglio della spesa pubblica e/o un aumento delle imposte, quella che chiamiamo austerità fiscale.

Abbattere il debito pubblico alzando le cedole, ecco la proposta semi-seria

I conti italiani

L’Italia ha speso nel 2017 il 4% del suo pil per pagare gli interessi sul debito, ma quello emesso nell’anno ci è costato mediamente intorno all’1,3%, in lieve risalita rispetto al 2016. Il deficit pubblico, invece, si è fermato al 2,3%, segno che il nostro avanzo primario sia stato superiore all’1,5% del pil. Con una crescita nominale del 2,5% non potremmo permetterci un deficit più alto dell’1,9% per stabilizzare il rapporto debito/pil. Poiché nel breve termine appare molto difficile per l’Italia puntare su un’accelerazione della crescita del pil, solo dall’inflazione potrebbe arrivare qualche buona notizia per il governo, qualunque esso sia. Immaginando che essa salisse al 2%, a fronte di una crescita reale del pil sempre all’1,5%, la crescita nominale si attesterebbe al 3,5% e il deficit-limite si porterebbe al 2,7%, ovvero l’Italia godrebbe di uno spazio di manovra dello 0,8% del pil, pari a 13,5-14 miliardi di euro, il 70% delle clausole di salvaguardia che scatteranno dall’anno prossimo, in assenza di coperture o rinvii concordati con la UE.

Dunque, più alta l’inflazione, maggiore la discesa potenziale del rapporto debito/pil, a parità di deficit. In realtà, bisogna anche mettere in conto che i processi di reflazione si trascinano con sé tassi nominali più alti, che nel tempo annullano gli effetti positivi sui conti pubblici. In più, essi impattano negativamente sull’economia reale, ovvero sui consumi, colpendo il potere di acquisto delle famiglie.

Insomma, la voglia non dichiarata di monetizzare il debito può trasformarsi in un boomerang nel medio-lungo termine, anche perché la reflazione avrà come conseguenza una lievitazione dei tassi reali, ovvero il costo di emissione del nuovo debito tenderà ad essere più alto di quello odierno, al netto dell’inflazione. Un esempio? Oggi, un decennale rende tra l’1,7% e l’1,8%, mentre nel 2007 si attestava mediamente al 4,4%. In termini reali, oggi i BTp a 10 anni rendono circa l’1%, nel 2007 circa il 2,7%.

E con il ritorno dell’inflazione, il mercato sconterebbe possibili conseguenze negative sul nostro debito del mutamento di politica monetaria della BCE, accentuando probabilmente il rialzo dei rendimenti, quando nel 2007 si viveva ancora nell’illusione che tutte le economie dell’Eurozona fossero perfettamente integrate sul piano finanziario. Per concludere, la bassa inflazione preoccupa la BCE, come le altre banche centrali, ma una maggiore crescita dei prezzi non ci eviterà di risanare i conti pubblici, anzi potrebbe comportarci più costi che benefici. Dal problema del debito non si scappa con escamotage aritmetici.

E se il debito pubblico italiano se lo comprasse la BCE anche dopo il QE?

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