L’anno scorso si è chiuso con un debito pubblico a 2.762,5 miliardi di euro, orientativamente intorno al 145% del PIL. Il tema della sua sostenibilità è all’ordine del giorno da trenta anni a questa parte. È diventato un incubo per l’italiano medio, che nel corso del tempo ha portato persino alla rassegnazione del cittadino dinnanzi a una montagna che non fa che crescere di anno in anno. Spesse volte, non soltanto in valore assoluto. E se vi dicessimo che ci sarebbe potuta andare di gran lunga peggio? L’ingresso ufficiale dell’Italia nell’euro si ebbe nel 1999, sebbene solamente nel 2002 la moneta unica entrò fisicamente nelle nostre tasche.

Il nostro Paese fece parte del gruppo di testa dei dodici, ampliatosi nel frattempo a venti. L’ultimo arrivo è della Croazia e risale al mese scorso.

Trend debito pubblico con l’euro

Dall’1 gennaio del 1999 al 31 dicembre 2022, il debito pubblico italiano è cresciuto di oltre 1.462 miliardi di euro. In termini percentuali, ha segnato un +125%. Tantissimo, pari a una media annua del 3,4%. E l’aspetto più disarmante riguarda la causa principale di questo aumento: la spesa per interessi. In questi ultimi 24 anni, abbiamo pagato ai creditori qualcosa come circa 1.707 miliardi. Parliamo di una media superiore ai 71 miliardi all’anno, il 4,6% del PIL. Un’enormità, che supera l’aumento stesso del debito pubblico di 245 miliardi. Cosa significa? Se non avessimo dovuto pagare gli interessi sul debito acceso nei decenni precedenti, avremmo assistito persino a una riduzione dello stock.

E questo sarebbe stato possibile grazie agli avanzi primari, che nel periodo considerato hanno superato in media l’1% del PIL. In pratica, lo stato ha speso meno di quanto ha incassato, al netto degli interessi sul debito pubblico. Queste cifre spesso infiammano gli euro-scettici, i quali notano come il fardello degli interessi sia rimasto pesante anche con la moneta unica.

Se questo è vero, andiamo a vedere quali cifre vi fossero con la lira. Abbiamo preso in considerazione il decennio pre-euro del 1989-’98. Allora, in media lo stato pagò il 10,3% del PIL solo per gli interessi. Il tasso implicito medio, ovvero il rapporto spesa per interessi e debito pubblico, era stato del 10,5%. Nell’era euro, è sceso al 4%.

In altre parole, se l’anno scorso avessimo dovuto pagare il debito pubblico a un costo medio uguale a quello dell’ultimo decennio sotto la lira, avremmo speso quasi 290 miliardi di euro contro gli attesi circa 77 miliardi. Oltre 210 miliardi in più, l’11% del PIL. Con cifre del genere, altro che reddito di cittadinanza, pensioni anticipate e sanità gratuita; non ci saremmo potuti permettere neppure i più elementari servizi. A dirla tutta, con queste cifre non saremmo arrivati al 2022. Saremmo andati in default molti anni prima. Non solo il debito pubblico sarebbe continuato a crescere a ritmi spaventosamente alti solo per pagare gli interessi, ma oltretutto gli stessi interessi avrebbero generato debito su cui pagare altri interessi.

Bassa crescita per assenza di riforme

Certo, il rapporto tra debito e PIL è salito dal 114% del 1998 al 145% del 2022. E in ciò c’è forse qualche effetto collaterale dell’euro, che in qualità di sistema di cambi fissi non permette all’Italia di avvalersi di scelte scellerate di politica economica come la svalutazione e la conseguente inflazione. Ma è stata l’assenza di riforme a frenare la crescita. Pensate che il PIL nominale sotto l’euro è cresciuto solo del 67% e quello reale di appena il 10,6%. In termini annuali, siamo cresciuti nominalmente solo del 2,2% scarso contro il 3,4% del debito pubblico. E la crescita annua reale scende a un miserrimo 0,42%.

Nell’ultimo decennio della lira, la crescita media reale del PIL fu dell’1,6%. Se avessimo mantenuto quel ritmo, oggi il rapporto debito/PIL sarebbe sotto il 110%.

E non stiamo tenendo conto degli effetti positivi che una maggiore crescita avrebbe avuto sui conti pubblici (più entrate e verosimilmente minori spese assistenziali) e sulla percezione del rischio sovrano, il cui miglioramento avrebbe ridotto i rendimenti dei titoli di stato. Ma non c’entra l’euro con questo azzeramento della crescita. Le altre economie europee, compresa una Grecia devastata dalla crisi negli ultimi quindici anni, sono andate tutte meglio. Siamo un caso eccezionale nel panorama internazionale. E sarebbe il caso di chiederci se le cause della nostra stagnazione secolare non debbano ricondursi a clientelismo esasperato, instabilità politica perenne, malaffare diffuso, criminalità organizzata e bassa scolarizzazione.

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