Se c’è un posto tranquillo e dove il benessere sembra elevato e diffuso, questo è la Danimarca. L’economia scandinava vanta tra i tassi di disoccupazione più bassi al mondo al 2,5%. Altissimo, invece, il PIL pro-capite a quasi 70.000 dollari. Ma a Copenaghen c’è aria di frustrazione. Ad ottobre, il tasso d’inflazione è salito al 10,1%, ai massimi dal 1982. Esattamente quaranta anni fa, la corona danese fu agganciata al marco tedesco attraverso il cosiddetto “peg”. Quando la Germania adottò ufficialmente l’euro nel 1999, il “peg” fu riconvertito contro la moneta unica.

E così, da allora il tasso di cambio può muoversi attorno al valore di circa 7,46 corone contro 1 euro per il 2,25% teorico in alto e in basso. Nei fatti, la banca centrale non permette variazioni superiori all’1%.

La Danimarca non ha voluto far parte dell’euro. Un referendum bocciò la proposta in tal senso nel 1992. La sconfitta scatenò una tempesta finanziaria sui mercati valutari, che qualche mese più tardi travolse lira italiana e sterlina inglese. Tuttavia, il “peg” continua ad essere considerato essenziale per la stabilità finanziaria dell’economia scandinava. Nessuno lo ha mai messo in dubbio, neppure quando a seguito della crisi del debito della Grecia, i capitali affluirono copiosi, minacciando la tenuta del sistema del cambio. La banca centrale fu costretta, però, a introdurre tassi negativi fino al -0,65% per disincentivare l’arrivo di capitali esteri.

Danimarca teme l’inflazione

Adesso, qualche dubbio inizia a serpeggiare sull’opportunità di mantenere in vita questo aggancio all’euro. L’alta inflazione è in parte figlia di questa scelta. La corona danese, se libera di muoversi sul mercato forex, sarebbe molto più forte contro le valute principali. Contro l’euro scambierebbe a +18/19%, stando all’ultimo dato del Big Mac Index di luglio. E il cambio più forte abbasserebbe i costi dei beni importati, alleviando la crescita dei prezzi al consumo.

Tutto questo non può accadere. Anzi, la banca centrale ha alzato sinora i tassi d’interesse solo all’1,25% contro il 2% della BCE. Volutamente sta tenendo il costo del denaro sotto i livelli dell’Eurozona per evitare che si ripeta lo scenario di qualche anno fa, ovvero che i capitali entrino nel paese così in abbondanza da mettere a dura prova il “peg”. Tra gli accademici “mainstream” e i politici non si solleva alcun dubbio circa la necessità di mantenere le cose come stanno. In fondo, i principali partner commerciali sono proprio economie dell’Area Euro.

Detto questo, la Scandinavia non è un luogo in cui l’instabilità sia mai tollerata. E quella dei prezzi spaventa particolarmente a quelle latitudini. Se la BCE si mostrasse poco capace nei prossimi mesi di tenere l’inflazione a bada, le probabilità che la Danimarca molli l’euro sarebbero forse non più così infime. In fondo, nessuno nel gennaio 2015 se lo sarebbe aspettato dalla Banca Nazionale Svizzera. Eppure, accadde. Nel caso della corona danese, però, il “peg” è fissato attraverso un accordo bilaterale con la BCE, per cui il suo abbandono risulterebbe più complicato. Ma l’ultima parola spetta alla politica, come sempre. E nessun governo s’impiccherebbe mai alla difesa di un sistema accusato di generare inflazione.

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