Per la prima volta dal 2010, lo scorso anno sono aumentate le vendite di PC, per l’esattezza del 4,8% a 275 milioni di pezzi. Durante i periodi festivi, le vendite globali sono arrivate a crescere del 10%. Cosa sia accaduto non è un mistero: la pandemia ha costretto centinaia di milioni di persone a lavorare da casa con il cosiddetto “smart working” e molte hanno avuto bisogno di acquistare un dispositivo elettronico (nuovo) per svolgere al meglio la propria mansione. E così, l’industria mondiale dei chip è cresciuta del 5,1% nel 2020 a 433 miliardi di dollari e quest’anno è attesa a +8,4%.

Non solo “smart working”. Chiusi in casa per le restrizioni anti-Covid imposte quasi ovunque nel mondo, la domanda di consolle per giochi, di telefonini, tablet e quant’altro possa servire all’intrattenimento è aumentata in misura preponderante. Probabilmente, ce ne siamo accorti già subito dopo il primo “lockdown”, quando i prezzi dei dispositivi elettronici risultarono aumentati. Pura speculazione, ci siamo perlopiù detti tra noi. In realtà, dietro c’è un problema più strutturale e che dovrebbe persistere almeno fino a tutta la prima metà del 2021: mancano i chip.

La domanda di chip nel mondo sta crescendo di anno in anno per il loro impiego nell’industria elettronica, ma anche sempre più in quella automobilistica. Servono per i servosterzi, per i sensori ai freni e per quant’altro renda la guida non solo più agevole, ma anche meno noiosa tramite l’intrattenimento. L’offerta non sta tenendo il passo con il boom della domanda e ciò sta avendo riflessi negativi sulla produzione globale. Colossi come General Motors e Ford hanno annunciato che dovranno tagliare la produzione rispettiva di auto per la carenza di chip. Possono anche costare pochi centesimi l’uno, ma se mancano non puoi costruire un’auto da 30 o 40 mila dollari.

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Dalla globalizzazione al “reshoring”?

In America è scattato l’allarme, tant’è che l’amministrazione Biden viene pressata affinché proceda a una re-localizzazione della produzione di chip.

Gran parte di essa avviene, infatti, in Asia e, in particolare, in Cina. Lo scorso anno, l’amministrazione Trump impose restrizioni a Semiconductor Manifacturing International (SMIC), la principale fonderia cinese. Le è stato vietato di accedere ai prodotti manifatturieri avanzati contenenti chip. Come reazione, la Cina ha aumentato considerevolmente le importazioni di circuiti integrati del 22,1% a un valore di 543,5 miliardi di dollari. Per non restare a corto di chip, colossi come Huawei e la stessa SMIC hanno fatto incetta di chip, mentre Pechino ha accresciuto anche le importazioni di macchinari per la produzione di semiconduttori, acquistandone 11.619 pezzi per un controvalore di 13,66 miliardi di dollari.

L’accumulo delle scorte di magazzino, in vista di una possibile “guerra” commerciale a tutto campo con gli USA, ha certamente aggravato la carenza di chip nel mondo. Tuttavia, questo preluderebbe a una normalizzazione graduale della situazione nei prossimi mesi, anche perché i chip non vengono acquistati generalmente mai con largo anticipo rispetto alla data di impiego nella produzione, per via dei costanti upgrade apportati nel campo della tecnologia avanzata. Ciononostante, la domanda crescente crea pressioni sul mercato. La pandemia non è finita e certe trasformazioni, come lo “smart working”, appaiono strutturali. In generale, poi, le vendite di dispositivi elettronici tendono a lievitare per l’ingresso nell’area del benessere di sempre nuove fasce della popolazione mondiale.

La carenza di chip sarà uno dei temi su cui il governo americano cercherà certamente di muoversi per evitare una rovinosa frenata alla ripresa dell’economia domestica. Siamo al paradosso che molte aziende vorrebbero produrre di più, ma non possono farlo per la carenza di uno degli input essenziali.

La questione del “reshoring” è oggetto di attenzione da parte di tutti i colossi mondiali. La stessa Apple ha dovuto ammettere di non essere riuscita a produrre tutti gli iPhone che avrebbe dovuto per soddisfare la domanda, proprio per la carenza di chip. Adesso, visto il drammatico film andato in onda nel corso della pandemia, tutte le multinazionali stanno cercando di mettere mano alle rispettive catene di produzione, al fine di accorciarle per evitare di restare esposte a problematiche lontane dai mercati di sbocco. Gli USA dopo Trump non hanno smesso di pensare alla relocalizzazione produttiva, anzi nessuno vuole più assistere a un disastro biblico come quello di questi mesi, scatenato proprio dall’eccessiva dipendenza sul piano manifatturiero da una sola area del pianeta.

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