La crisi turca morde e il presidente Erdogan sta ottenendo già i primi risultati dalla nomina dell’ennesimo governatore. Nel pomeriggio di venerdì 16, la banca centrale ha comunicato l’embargo ai danni di Bitcoin, la “criptovaluta” più popolare al mondo. Alla base di questa decisione vi sarebbero formalmente ragioni legate all’alta volatilità dell’asset e all’assenza di una sua regolamentazione. L’istituto teme che i cittadini turchi possano subire notevoli perdite acquistando monete digitali, per cui ha imposto il divieto di mettere a disposizione qualsiasi infrastruttura che ne renda possibile l’acquisto e l’uso ai fini dei pagamenti.

In realtà, la decisione del governatore Sahap Kavcioglu è figlia del nuovo corso imposto dal presidente Erdogan all’autorità monetaria nazionale dopo la breve parentesi sotto Naci Agbal. Tra l’inizio di marzo e il 24 marzo scorso, le compravendite di Bitcoin in Turchia hanno avuto un controvalore di ben 218 miliardi di lire (22,5 miliardi di euro). Nello stesso periodo del 2020, erano state pari a soli 7 miliardi. Su base annua, quindi, si è registrata una crescita del 3.000%. E ben 23 miliardi risultano scambiati nei giorni immediatamente successivi alla destituzione di Agbal e alla contestuale nomina di Kavcioglu, avvenute il 19 marzo sera. Un dato che si confronta con l’appena 1 miliardo scambiato negli stessi giorni del 2020.

La verità è che la crisi turca dilaga. Le famiglie da tempo non hanno più fiducia nella lira e l’inflazione erode il loro potere di acquisto. A marzo, è salita sopra il 16%. Pertanto, molte di esse stanno affannandosi a convertire i risparmi in dollari, euro e persino Bitcoin. Tutto, pur di non lasciarli depositati in valuta domestica. La lira turca ha perso circa l’80% contro il dollaro negli ultimi 10 anni. L’accelerazione delle perdite è arrivata con il fallito golpe del luglio 2016, quando la fuga dei capitali si è intensificata.

Crisi turca provocata dalla fuga dei capitali

A seguito della decisione di Ankara, i prezzi dei Bitcoin venerdì pomeriggio sono arrivati a perdere fino al 4%, salvo risalire la china nelle ore successive.

Non si è trattata di una novità assoluta nel panorama internazionale. Un simile divieto fu emesso nel 2017 dalla Cina, primo mercato per il “mining” di Bitcoin. E l’India ci sta pensando proprio in queste settimane, mentre la Nigeria già si è spesa in tal senso. Cosa hanno in comune tutte queste realtà? La diffidenza verso il mercato, a parziale eccezione di Nuova Delhi.

La crisi turca scaturisce dalla politica monetaria demenziale portata avanti da Ankara negli ultimi anni. A fronte di tassi d’inflazione in ascesa, la banca centrale ha tenuto a lungo i tassi d’interesse bassi. Ciò ha accentuato il deflusso dei capitali, nonché gli squilibri macroeconomici. L’economia turca soffre di una bilancia commerciale e dei pagamenti cronicamente passive. In sostanza, importa troppo, è poco competitiva. Ma anziché puntare sulle riforme per rilanciare la produzione interna e tagliare il rosso delle partite correnti, il presidente Erdogan pretende tassi bassi per sostenere il credito e, a suo dire, per ridurre l’inflazione.

Difficilmente riuscirà a tenere i suoi cittadini alla larga dai Bitcoin. In un mercato globale, l’accesso alla “criptovaluta” può benissimo avvenire attraverso canali esteri. Le compravendite si sposteranno al di fuori del paese e la crisi turca certamente non si risolverà cercando di chiudere l’accesso a una via di fuga. Sarebbe come se sperassimo di abbassare la febbre gettando il termometro dalla finestra. Semmai, quanto accaduto è stato un indizio di ciò che potrà arrivare nel prossimo futuro, vale a dire l’imposizione di nuovi controlli sui capitali, al fine di frenare l’acquisto di valute estere e le vendite degli assets domestici. Palliativi senza alcuna speranza di sortire gli effetti sperati, ma che al contrario accelereranno il corso inevitabile degli eventi.

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