Nella mattinata di oggi, i BTp a 5 anni hanno toccato un nuovo rendimento minimo record dello 0,19%. E al momento, i decennali si attestano in prossimità dei minimi storici, all’1,12%. Eppure, l’Italia è il secondo paese con il maggiore rapporto tra debito pubblico e pil (133%) d’Europa dopo la Grecia, non mostra alcun segnale di crescita sostanziale, nonostante il suo pil sia inferiore a quello del 2007 di quasi il 9% e non è nemmeno uscita dalla deflazione strisciante degli ultimi mesi.

Tutto questo quadro già negativo si arricchisce di una crisi politica incombente con il referendum costituzionale e di richieste di nuova flessibilità per i conti pubblici, avanzata dal governo Renzi a Bruxelles, dopo non avere centrato già i target fiscali nell’ultimo biennio, avendo usufruito a piene mani della linea permissiva della Commissione Juncker.

Lassismo fiscale diffuso

E la Francia non dovrebbe essere in grado di abbassare il deficit sotto il 3% nemmeno nel 2017 (anno elettorale), dopo che tra il 2007 e il 2011 ha registrato un disavanzo medio annuo del 5% e del 4% nell’ultimo quinquennio. E che dire della Spagna, senza governo da 8 mesi, forse avviata a celebrare le terze elezioni politiche in meno di un anno, il che puzza di ridicolo. Nonostante una crescita più che soddisfacente (intorno al 3%), i conti pubblici di Madrid restano negativi e il deficit non ne vuole sapere di scendere sotto il 3%.

Queste grandi economie dell’Eurozona hanno dalla loro la scusante della flessibilità, necessaria per crescere e per fare le famose riforme strutturali, tipicamente costose nel breve periodo, anche sotto il profilo della sostenibilità politica.

 

 

 

Crisi spread

Vi ricordate quale fosse la situazione nel 2011, ai tempi della crisi dello spread, che portò alle dimissioni l’allora premier Silvio Berlusconi? Bastò un tentennamento su un lungo elenco di 39 riforme richieste dalla BCE, perché si scatenasse l’inferno sui mercati finanziari, lo spread BTp-Bund a 10 anni schizzasse vicino quota 600 punti base e i rendimenti dei nostri bond sovrani esplodessero, facendo temere l’imminente mancato accesso dell’Italia ai mercati per rifinanziare il debito in scadenza.

Sull’onda del panico, a Roma arrivò il commissariamento di fatto ad opera del Prof Mario Monti, che con il sostegno quasi unanime del Parlamento italiano effettuò tagli dolorosi della spesa pubblica e aumenti altrettanto duri delle imposte. Cercò anche di varare qualche riforma pro-crescita, ma il tempo gli fu breve.

I passi di Draghi negli ultimi anni

Non vogliamo esprimere alcun giudizio su questa controversa fase politica del nostro paese, ma intendiamo evidenziare come in quegli anni, tutti i governi europei ci tenessero a mostrarsi fiscalmente responsabili, anche al costo di risultare impopolari. L’esperienza durò poco, perché quando i mercati hanno smesso di bombardare i titoli di stato dell’Eurozona, ha prevalso l’azzardo morale, non la responsabilità.

Era l’estate del 2012 e il governatore della BCE, Mario Draghi, dovette intervenire nel corso di una seduta altamente drammatica, avvertendo che avrebbe fatto di tutto per salvare l’euro (“whatever it takes”) e annunciando l’imminente varo di un piano anti-spread (OMT), di fatto mai applicato. Le tensioni finanziarie iniziarono a rientrare, i rendimenti sovrani a scendere e gli spread a stringere.

 

 

 

Rendimenti bond tranquillizzano governi spendaccioni

Un paio di anni dopo, sempre Draghi punta a irrobustire la ripresa economica dell’Eurozona e i prezzi, varando i primi stimoli monetari, che all’inizio dello scorso anno hanno lasciato il posto a un più ampio programma, noto come “quantitative easing”. Da allora, i rendimenti sovrani sono letteralmente crollati e buona parte di essi risultano scesi in territorio negativo (l’80% dei Bund), con il risultato di quasi azzerare il costo di rifinanziamento del debito a carico degli stati.

Persino quell’Italia sotto attacco finanziario nel 2011-2012, quando i fondamentali erano migliori di quelli odierni, oggi si permette il lusso di emettere BoT con rendimenti negativi, ovvero gli investitori arrivano a pagare il nostro Tesoro per comprarsi i suoi titoli.

La scommessa persa di Draghi

Nelle intenzioni di Draghi, il QE sarebbe dovuto servire a far guadagnare tempo ai governi, consentire loro di fare le riforme con calma, sostenendo la ripresa delle rispettive economie, in grado così di resistere alla successiva normalizzazione delle condizioni sui mercati. Come aveva avvertito e continua a fare la Germania, però, è accaduto esattamente il contrario, ovvero che in assenza di segnali derivanti dal mercato, i governi si siano convinti di potersi permettere qualsivoglia politica fiscale e di rinviare a tempi futuri le riforme più impopolari.

D’altronde, quando uno stato riesce ad emettere titoli con rendimenti negativi, sostanzialmente guadagnando dall’indebitamento, non si capisce perché mai debba mostrarsi rigido sul piano fiscale, consapevole che l’elevata domanda di bond per effetto degli acquisti della BCE non verrà meno con una maggiore flessibilità nella gestione dei conti pubblici.

 

 

 

Lassismo fiscale è frutto del QE

Da qui, la flessibilità richiesta a ogni piè sospinto dal governo Renzi, il rifiuto di quasi ogni tipo di riforma e di risanamento in Francia, l’irresponsabilità politica in Spagna e gli occhi benevoli dei commissari verso i paesi che disattendono i patti.

Il tanto vituperato governo Berlusconi lasciò l’Italia con un deficit al 3,9%, che nel corso del triennio successivo scese ad appena il 3% e oggi si attesta verosimilmente tra il 2,5% e il 3%. Altro che risanamento, sono avvenuti solo piccoli aggiustamenti. Ma mentre 5 anni fa si respirava l’urgenza di un cambio di rotta, oggi s’invoca il diritto di fare ancora più debiti, pur avendone accumulati nel frattempo per quasi 330 miliardi.