Il Decreto “Liquidità” è stato varato da settimane, ma di denaro alle imprese non risulta esserne stato prestato. Altro che 400 miliardi di euro garantiti dallo stato! Le banche italiane continuano a richiedere chili di documenti agli imprenditori che si presentano ai loro sportelli per avvalersi della normativa, sostenendo che formalmente nulla sia cambiato sul piano della procedura per l’erogazione di un finanziamento. Insomma, continuano a doversi accertare del merito creditizio del cliente, della sua solidità finanziaria e a capire le ragioni della richiesta.

E solo dopo avere superato questi step, possibilmente prestano denaro alle condizioni di mercato. E tutto ciò, pur ricevendo liquidità illimitata e a costi negativi dalla BCE con le aste T-Ltro e vedendosi allentati i requisiti prudenziali e di patrimonializzazione. Chi si era illuso che avrebbe ricevuto un prestito a tasso quasi nullo e in 48 ore si è dovuto ricredere un attimo dopo aver messo piede in una filiale.

Perché i 750 miliardi di prestiti alle imprese sono solo fumo venduto dal governo

Adesso, come del resto avvenne anche nel corso della precedente crisi del 2008 e negli anni successivi, verrà facile praticare lo sport del tiro alle banche. Eppure, i loro bilanci sono stati zavorrati di crediti deteriorati fino a un massimo di 360 miliardi di euro nel 2016. In sostanza, un prestito su cinque negli anni post-crisi non venne restituito in Italia o, comunque, non nei tempi dovuti. Se avessero prestato denaro più allegramente, quella montagna di cosiddetti NPL sarebbe letteralmente esplosa, trascinando nella fossa molti istituti, anche tra i più grandi e solidi d’Italia.

Si capisce molto bene la prudenza per cui le banche italiane si mostrino restie a farsi trascinare dalla propaganda del governo del sostegno alle imprese. Il loro lavoro non consiste nel sostenere l’economia italiana, quanto nel prestare ai clienti il denaro affidatogli dai risparmiatori per ricavarne un profitto.

Così gira il mondo. Le banche non sono mai state, non sono e mai saranno ONLUS. E meno male, altrimenti molti dei nostri conti correnti andrebbero in fumo per il cattivo uso del denaro depositatovi.

Le piccole dimensioni delle imprese italiane

Questo, però, crea un enorme problema all’Italia, molto più che alle economie europee concorrenti di Germania, Francia, Spagna, Olanda, etc. Se la liquidità alle imprese non fluisce, molte attività chiuderanno per sempre. Impossibile resistere per settimane ancora senza fatturare e dovendo sostenere i costi fissi. La catena dei pagamenti rischia di trascinare a fondo tutti. Se un negozio non paga l’affitto, il proprietario dell’immobile ritarderà a sua volta il pagamento di un’imposta (ad esempio, l’IMU) o licenzierà la colf. Si avranno meno posti di lavoro, minore gettito fiscale e ci avvicineremmo a rapidi passi verso il burrone del fallimento collettivo.

Ma la colpa, dicevamo, non è delle banche in sé, semmai punta dell’iceberg. Ecco alcuni numeri che fungono da spia dei problemi profondi e ormai “storici” che affliggono il sistema economico italiano, alcuni dei quali apparentemente positivi. Da decenni andiamo orgogliosi del fatto che siamo la nazione delle piccole e medie imprese. Vi basti pensare che abbiamo 72,4 attività ogni 1.000 abitanti contro le 47,8 della media UE. Bello, vero? Senonché, le imprese italiane mediamente occupano meno di 4 dipendenti contro i 5,8 della UE. E se al nord si sale a 4,2, al sud si sprofonda a 2,8. Il 95% delle imprese occupa fino a 9 dipendenti, solamente lo 0,088% (3.895 nel 2017, dati Istat) dà lavoro a più di 250 dipendenti. Ne consegue che quasi i due terzi dei lavoratori del settore privato risulti occupato in aziende sotto i 50 dipendenti, perlopiù con pochi capitali disponibili.

Se passiamo ad analizzare la forma giuridica, scopriamo che poco più di un quinto ne ha una “evoluta”, vale a dire è registrata come società per azioni, a responsabilità limitata, in accomandita per azioni.

Infine, alla fine dello scorso anno, solamente 375 erano le imprese quotate a Piazza Affari, in pratica appena una ogni 11.700 con sede in Italia. Che cosa ci dicono questi numeri? Che la retorica della piccola e media impresa come colonna portante dell’economia italiana va benissimo quando si vuole mettere in luce l’ingegno, la passione, la fantasia del nostro popolo, meno quando è spia dell’incapacità o dell’impossibilità del tessuto produttivo di crescere.

Le conseguenze sull’economia italiana

E questa condizione si trascina dietro una serie di conseguenze tutte negative per il sistema Italia. Per prima cosa, il tasso di produttività è legato alle dimensioni delle imprese. Più si è piccoli e maggiore l’incidenza dei costi fissi, mentre più si è grandi e maggiori le economie di scala. Ne consegue che le grandi imprese riescano a produrre a costi unitari più bassi, per cui si mostrano più competitive sui mercati internazionali e possono permettersi di retribuire meglio i dipendenti. L’Italia è affollata da pmi, i cui costi di produzione sono relativamente più elevati e, quindi, sono costrette a tenere basse le retribuzioni.

Stipendi in Italia più bassi: cosa è cambiato negli ultimi 10 anni

Questo esita come risultato una bassa crescita dell’economia italiana, per quanto proprio nelle fasi di crisi la maggiore agilità delle piccole imprese renda possibile il mantenimento dei livelli occupazionali meglio che altrove. E c’è di più. Poche grandi società di capitali significa che la stragrande maggioranza delle imprese in Italia è tenuta a redigere bilanci poco significativi per le banche, per non dire spesso opachi. Prestereste mai soldi a un cliente che non sia nemmeno capace di esibire una documentazione credibile sul suo fatturato, sui costi, gli investimenti e magari è pure vistosamente sotto-capitalizzato?

Il quadro si completa con la scarsa tutela del credito che la normativa offre, malgrado qualche passo in avanti compiuto negli ultimi anni.

Le banche impiegano fin troppo tempo per escutere le garanzie dei clienti inadempienti, con cause civili che possono arrivare a durare 10 anni. Vero è che con il decreto del governo, le garanzie sono pubbliche sulle erogazioni fino al 25% del fatturato, ma lo stato stesso risulta inadempiente, con debiti della Pubblica Amministrazione verso i privati per oltre 50 miliardi di euro, molti dei quali hanno decretato la morte delle aziende creditrici.

La barca affonda

L’arretratezza del sistema Italia è causa dei mali esplosi con questa crisi inattesa nelle cause, modalità e intensità. La stessa disconnessione delle banche dalla realtà socio-economica ha generato negli anni frustrazione, risentimento e rabbia sociale. I lavoratori assunti con contratti non a tempo indeterminato non hanno avuto quasi mai accesso al credito, in quanto considerati a rischio. Senonché, questa è la condizione in cui versa ormai una buona parte del mercato del lavoro, nella quale rientrano quelle partite IVA aperte da giovani impossibilitati altrimenti a collaborare con studi professionali o aziende e che nei fatti sarebbero da considerarsi a tutti gli effetti lavoratori subordinati.

Il problema non sarà superare l’emergenza, quanto uscire dalla stagnazione pluridecennale in cui siamo piombati già molto prima della crisi del 2008 e che ci vedeva già alla fine del 2019 con un pil reale ai livelli dei primi anni Duemila, mentre pur dopo la parziale ripresa attesa nell’anno prossimo, rischiamo di tornare a fine anni Novanta per restarci a lungo. Chi oggi punta il dito contro le banche o questa o quella categoria cerca con ogni probabilità di deviare l’attenzione dalle criticità reali del sistema Italia, che così com’è è già fallito da tempo, tenuto in vita solo dalla cornice dell’euro, che ci consente di lubrificarlo ancora con un dispendio minimo di risorse. Siamo al collasso di un’economia non più rispondente alle esigenze delle classi produttive, bensì dei ceti parassitari che si reggono sulla macchina burocratica.

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