La curva delle scadenze in America si è appiattita, anzi nel tratto 2-3 anni è arrivata persino a invertirsi. Stamane, il Treasury a 10 anni rendeva poco meno del 2,90%, quello a 2 anni il 2,76-7%, in entrambi i casi ai livelli minimi da 3 mesi. Lo spread 10/2 anni risulta sceso, quindi, a 13 punti base, 17 in meno di appena un mese fa. I movimenti sono sotto gli occhi di tutta la finanza mondiale: i decennali americani stanno risalendo di prezzo a velocità maggiore dei bond con scadenze più corte.

Meno di un mese fa, offrivano il 3,24%, oggi ben 33 punti base in meno. Cosa sta accadendo di preciso e perché le borse reagiscono negativamente in tutto il mondo a questo appiattimento della curva?

Il mercato dei bond americani segnala rischi o nuove opportunità?

In un mercato perfetto, privo di incertezze sul futuro e di impazienza, gli investitori richiederebbero rendimenti costanti lungo tutta la curva delle scadenze, nel senso che per loro sarebbe indifferente prestare denaro a 30 anni o a 5 anni. In entrambi i casi, ad esempio, pretenderebbero il 3%. In realtà, non è mai così. Anzitutto, privarsi di denaro per un periodo più lungo comporta un sacrificio maggiore e, in secondo luogo, più passa il tempo che intercorre dalla data dell’investimento alla scadenza, maggiori i rischi legati al credito in sé, al cambio (nel caso di emissioni in valuta straniera) e all’inflazione. Se sono grosso modo capace di prevedere, anche avvalendomi delle previsioni statistiche ufficiali, quale possa essere la crescita tendenziale dei prezzi da qui a 1-2 anni, nessuno credibilmente sarà in grado di stimarla a 5, 10 o 20 anni. E l’eventuale accelerazione dell’inflazione metterebbe a repentaglio il potere di acquisto dell’investimento, non essendo nemmeno scontato che il rendimento riesca a coprirne l’erosione.

Pertanto, qualsiasi investitore tende a chiedere rendimenti maggiori per titoli di più lunga durata, mettendosi così al riparo contro quel fattore “X”, che raggruppa le varie incertezze legate all’orizzonte temporale longevo.

E se la curva dei rendimenti si appiattisce o, addirittura, si inverte? In genere, sarebbe il segnale che il mercato stia scontando rischi imminenti, quali una crisi dell’economia, di solvibilità dell’emittente (probabilità di default in crescita) o inflazione. Poniamo, ad esempio, che gli investitori temano che uno stato da qui a qualche anno possa incorrere in problemi fiscali seri. Le scadenze più a rischio sarebbero quelle di durata medio-breve, mentre nel lungo periodo è probabile che tali problemi saranno stati già risolti. Per essere chiari, quand’anche uno stato oggi fallisse, un titolo a 30 anni avrebbe maggiori chance di essere interamente rimborsato di uno a 5 anni, dato che da qui al 2048 di acqua sotto i ponti ne sarà passata. La Germania negli anni Venti andò in default sulle riparazioni di guerra, mentre negli anni Cinquanta, dopo una rovinosissima Seconda Guerra Mondiale perduta con tanto di distruzioni materiali, era già in boom e tra le economie più avanzate e solide del pianeta.

Perché la curva dei rendimenti USA è piatta?

L’appiattimento della curva americana a cosa sarà dovuto? Il principale ritornello intonato dagli analisti riguarda il rischio di recessione. Ma non si era detto che l’economia a stelle e strisce scoppia di salute? Appunto, ma quanto ancora durerà questa fase quasi magica per gli USA, con disoccupazione ai minimi da quasi 50 anni, inflazione attorno al target e crescita del pil media del 3,5% negli ultimi due trimestri? L’ultima recessione americana cessò ben quasi 10 anni fa e mediamente tra una crisi e l’altra negli USA trascorrono 7-8 anni. In pratica, saremmo già andati oltre, anche grazie agli stimoli fiscali dell’amministrazione Trump, che hanno incoraggiato i consumi quest’anno.

Tuttavia, con la vittoria dei democratici alla Camera, improbabile che il governo federale abbia gli strumenti per varare nuovi stimoli e prolungare la crescita. Da qui, il pessimismo degli analisti, che sta contagiando i mercati, i quali adesso iniziano a scontare l’arrivo di una recessione verso la seconda metà del 2020.

E se i timori di crisi c’entrassero solo in parte? Il petrolio è crollato del 30% in un paio di mesi, quotando anche oggi sotto i 60 dollari al barile, dopo che l’OPEC ha lasciato intravedere un taglio della produzione di circa 1 milione di barili al giorno, il dato minimo del range 1-1,4 milioni atteso dal mercato. Il greggio influenza le aspettative d’inflazione, le quali non a caso si sono di molto “raffreddate” negli USA nelle ultime settimane. Seguendo il differenziale di rendimento tra i quinquennali con cedola fissa e quelli con cedola legata all’inflazione, la crescita attesa dei prezzi per gli USA da qui a 5 anni si attesterebbe mediamente poco sopra l’1,7%, sotto il target del 2% fissato dalla Federal Reserve, meno del 2,07% di soli due mesi fa e nettamente giù dall’apice del 2,16% di maggio. Se il mercato si aspetta un’inflazione inferiore, naturale che abbassi quel premio al rischio preteso sui bond più longevi. In un certo senso, starebbe valutando i tassi già scontati un po’ troppo alti, come se avessero contribuito a deprimere le aspettative d’inflazione.

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Il dietrofront della Fed

In effetti, se a ottobre il governatore Jerome Powell spiegava che il livello dei tassi Fed fosse ancora “ben inferiore” a quello naturale – con quest’ultimo ad essere stimato orientativamente intorno al 3% – pochi giorni fa, lo stesso definiva “di poco inferiore” al tasso naturale il livello attuale dei tassi americani, come dire che l’istituto starebbe rivedendo in corsa la propria strategia monetaria nel senso più accomodante. Il mercato, che era arrivato a stimare 3-4 rialzi dei tassi fino alla fine del 2019, adesso ne intravede solo un paio.

Tuttavia, ciò cozzerebbe con l’appiattimento della curva, visto che i rendimenti a breve tendono ad essere influenzati maggiormente dalla politica sui tassi. Si consideri, però, che anche i titoli a 2 anni stanno offrendo di meno, semplicemente i loro rendimenti arretrano meno di quelli a 10 anni, vuoi per l’esistenza di un “floor” implicito, vuoi per quella componente di rischio legata alla possibile recessione, che in effetti non si può escludere dal ragionamento.

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Peraltro, proprio il dietrofront della Fed sui tassi finirebbe per alimentare le paure sull’economia. Se la banca centrale passa dal segnalare una stretta incessante a comunicare di avere quasi completato il lavoro in poche settimane, non sarà forse perché è venuta nel frattempo a conoscenza di dati macro negativi sullo stato di salute dell’economia? Questo si chiede parte degli investitori e questo è il rischio insito nel cambiare programmi senza riuscire a comunicarne bene le ragioni. Senza dubbio, l’appiattimento della curva su livelli di rendimento nettamente più bassi rispetto a qualche settimana fa ci segnalerebbe che in America si stia scontando una stretta meno vigorosa di quanto si pensasse poco prima. Che questo dipenda solo dal ripiegamento in vista dell’inflazione o anche dal timore che arrivi presto una crisi non sembra certo. Siamo portati a pensare che stiano pesando entrambi gli aspetti, con una preponderanza del primo sul secondo.

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