La banca centrale di Praga ha abbandonato ieri la difesa del cambio minimo di 27 contro l’euro, perseguita da oltre tre anni per evitare di importare deflazione, attraverso una corona ceca troppo forte. In meno di 24 ore, questa si è rafforzata dell’1,6% contro la moneta unica, scendendo a un rapporto di 26,61. Non è stata una sorpresa vera e propria, anche se vi era incertezza sui tempi della rimozione del cap. L’istituto aveva già segnalato l’intenzione di non mantenere più il cambio minimo oltre il 31 marzo, avendo già vinto la battaglia contro la deflazione, a differenza di quanto accade il 15 gennaio 2015 a Zurigo, quando la SNB annunciò l’improvviso abbandono del “peg” unilateralmente introdotto 40 mesi prima e che impediva al franco svizzero di rafforzarsi al di sotto di 1,20 contro l’euro.

(Leggi anche: Corona ceca ai massimi da 3 anni e mezzo, banca centrale abbandona il cap)

Allora, anche la corona danese subì un duro attacco speculativo, che mise nelle settimane successive a repentaglio il “peg” ultra-trentennale, fissato bilateralmente con il marco tedesco fino al 2000 e con l’euro dopo. Per contrastare gli eccessivi afflussi di capitali, il governatore Lars Rohde tagliò i tassi al -0,75% e segnalò l’intenzione di non cedere in nessun caso alle spinte speculative del mercato, avvalendosi del clima politico praticamente unanime a sostegno della difesa del “peg”.

Una storia di successo il peg danese

La battaglia fu vinta, il “peg” restò salvo e il Fondo Monetario Internazionale lodò la banca centrale di Copenaghen, attribuendole una credibilità accresciuta con la capacità mostrata di difendere il cambio con l’euro intorno a 7,46038. In teoria, la corona può oscillare all’interno di un range del 2,25%, ma nei fatti sono consentite variazioni minimali, di appena qualche decimale. (Leggi anche: Danimarca, elogio FMI: banca centrale più credibile con difesa peg)

L’accordo bilaterale con la BCE consente ad oggi alla banca centrale danese di godere di un sostegno credibile per i casi di brusche variazioni negli afflussi/deflussi dei capitali, in grado di dissuadere gli investitori dal posizionarsi con scommesse “bullish” o “bearish” sulla corona.

E questa volta sarà ancora così?

Il fattore tassi

In base alla storia degli ultimi 35 anni, dovremmo dedurre di sì. Non per questo, però, possiamo escludere altri scenari. L’economia danese si trova oggi in uno stato di sostanziale piena occupazione, con i senza-lavoro al 4,3%. Allo stesso tempo, gode ancora di un’inflazione abbastanza bassa, che a febbraio risultava salita all’1% contro il 2% dell’Eurozona, scesa all’1,5% a marzo.

Rohde mantiene una politica monetaria ultra-espansiva, con tassi al -0,65%. Viene da chiedersi quanto questa possa durare. Se è vero che la bassa inflazione dovrebbe giustificare per alcuni mesi ancora l’accomodamento monetario, è il mercato del lavoro a destare più di un dubbio. Nel paese si registra ormai una carenza di manodopera disponibile, tanto che si sta cercando di attrarla da Grecia, Spagna e Portogallo, ovvero economie con elevati tassi di disoccupazione.

Danimarca già in piena occupazione

Non aiuta la vicinanza geografica con la Germania, altra economia quasi in piena occupazione. Ciò significa che di questo passo, tra pochi mesi un qualsiasi incremento della domanda interna o delle esportazioni (l’80% del pil danese) si tradurrebbe in inflazione, non in un aumento della produzione, a causa delle difficoltà nel trovare lavoratori disponibili. Ma un surriscaldamento dell’inflazione costringerebbe la banca centrale ad alzare i tassi, anticipando la stretta della BCE.

Ne consegue che il mercato, in previsione di tale evento, potrebbe sin d’ora iniziare a scontare un rafforzamento della corona danese, scommettendo al rialzo. Al momento, il cambio contro l’euro vale 7,43565, solamente lo 0,33% più forte del tasso di riferimento, anche se per la storia di Copenaghen non sarebbero scostamenti così insignificanti.

(Leggi anche: In Danimarca si guarda a un rialzo dei tassi)

Dirimente sarà l’inflazione danese

Che non vi sarebbero spinte speculative in questa fase lo dimostrerebbero la discesa in febbraio delle riserve valutarie dell’istituto e anche i rendimenti sovrani danesi, più elevati di quelli tedeschi lungo l’intera curva delle scadenze: i biennali viaggiano al -0,46% contro il -0,8%; i decennali allo 0,53%, percentuale doppia di quella degli omologhi Bund; del tutto simili i trentennali, invece, all’1%.

Si consideri che nel corso dell’attacco dei mercati di inizio 2015, i rendimenti decennali danesi si azzerarono, i trentennali rendevano poco più dello 0,4% e i biennali erano ancora più negativi di quelli odierni. Ma tutto potrebbe repentinamente stravolgersi: la BCE ha segnalato ieri di voler mantenere gli stimoli e i tassi bassi ancora per un po’, per cui la differenza la farà l’inflazione danese. Se salirà stabilmente verso il 2%, costringerà Rohde a intervenire. Gli acquisti di assets nazionali dall’estero torneranno e il “peg” sarà nuovamente testato. (Leggi anche: La Danimarca affronta un nuovo capitolo della speculazione sulla corona)