Matteo Renzi annuncia l’addio al PD e la nascita dei gruppi parlamentari autonomi, i quali inizialmente dovrebbero raccogliere una trentina tra senatori e deputati. Il suo ormai ex partito “non ha una visione del futuro” ed è diventato un “insieme di correnti”, secondo l’ex premier, che ne ha anche per il Movimento 5 Stelle: “non voglio morire socio di Rousseau”. La scissione del PD era scontata da mesi, ma l’apertura improvvisa della crisi di governo da parte della Lega di Matteo Salvini aveva almeno fatto sperare il segretario Nicola Zingaretti che sarebbe stata rinviata a un futuro non imminente.

Invece, la fregatura del fiorentino era dietro l’angolo e solamente una banda di ciechi, come quella che alloggia di tanto in tanto al Nazareno, poteva non vederla.

Per il governo Conte bis, una tragedia. Il premier è stato rassicurato da Renzi con una telefonata sull’assenza di ripercussioni per il suo esecutivo. Anzi, il leader “scissionista” ha anche affermato che sarà “un bene per Conte e per tutti” l’addio al PD, un’espressione che puzza di quel “Enrico, stai sereno”, che 5 anni e mezzo fa preannunciò la beffa ai danni dell’allora inquilino di Palazzo Chigi e presidente dem.

Bisogna essere davvero politici scadenti per non avere capito che il rinvio delle elezioni e la nascita di un governo retto tra due formazioni che si erano odiate e insultate fino al giorno prima fosse solo uno stratagemma renziano per mettere nel sacco PD e 5 Stelle. Puntualmente, la pochezza e la mancata lungimiranza dei dem sono uscite a galla e rischiano di travolgere quel che resta del partito. Sì, perché se è vero che con ogni probabilità Renzi non punti a far cadere l’esecutivo subito, la vita di quest’ultimo si complica ulteriormente.

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Incubo per Zingaretti e Di Maio

Già oggi, i programmi dei due partiti appaiono molto differenti e incompatibili, in particolare, sull’economia.

Il peggio arriverà con la necessità dei renziani di farsi sentire in maggioranza, chiaramente ai danni degli ex compagni di partito e facendo da contraltare ai grillini. Teresa Bellanova, ministro dell’Agricoltura, è stata nominata “capo delegato al governo”. Si annunciano scintille con i dicasteri economici a guida 5 Stelle, specie con quella Nunzia Catalfo al Lavoro, che si batte per il salario minimo a 9 euro l’ora e che proprio la renziana ha definito “una truffa”.

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L’incubo per Zingaretti da una parte e Luigi di Maio dall’altra è adesso di non riuscire nemmeno a capitalizzare quel minimo successo necessario per ammantare di dignità un’alleanza al limite della decenza per com’è nata. I due leader confidavano fino a ieri di riuscire almeno a portare a casa qualche risultato con la legge di Stabilità, così da far digerire ai rispettivi elettori la nascita del governo giallorosso. Con Renzi fuori dal PD, il quadro si complica. Anzitutto, emerge nitida la presenza dei renziani, che imbarazzerà ancora di più i grillini, i quali hanno sin qui ipocritamente portato avanti la linea, secondo cui si sarebbero alleati solamente con il PD di Zingaretti.

Secondariamente, come dicevamo, l’ex premier e i suoi uomini pretenderanno di essere ricompensati sul piano delle proposte per segnare punti nel dibattito parlamentare e politico. Ciò avrà senz’altro ripercussioni sul PD, che dovrà cercare di rendere il meno visibile possibile l’attivismo dei renziani, ma anche sui 5 Stelle, che dovranno scegliere se aprire al centrismo o spostarsi definitivamente a sinistra. E il guaio per Di Maio sta nel ritrovarsi (fragilissimo) a capo di truppe sbandate, che vanno da chi difende i Decreti Sicurezza di Salvini a chi vorrebbe salario minimo, lotta ai cantieri pubblici e porti aperti.

Giallorossi fregati da Renzi

Al Senato, i numeri della maggioranza sono risicati. 169 hanno votato la fiducia pochi giorni fa, 8 in più dello stretto necessario. Tuttavia, già prima della scissione si vociferava che alcuni pentastellati strizzassero l’occhio alla Lega, adesso avranno una maggiore offerta disponibile tra cui dimenarsi per sganciarsi dall’M5S, specie i fuoriusciti e gli espulsi. E pensare che se Zingaretti avesse acconsentito a nuove elezioni, oggi sarebbe stato un leader riconoscibile e riconosciuto, coerente con la propria linea e avrebbe gestito le candidature per il Parlamento, mettendo in un angolo Renzi e le sue truppe. D’altra parte, gli stessi 5 Stelle avrebbero potuto giocarsela sul terreno della coerenza in campagna elettorale, invocando maggiori consensi per governare senza alleati scomodi e opportunisti.

Renzi è riuscito alla luce del sole a fare abbracciare gli uni e gli altri mortalmente, ad evidenziarne l’assoluta assenza di programmi e valori e il relativo cinismo votato alla sola conservazione del potere. Ha umiliato Zingaretti, rendendolo un segretario in balia degli umori altrui, stanato Di Maio e i grillini dalla loro presunta “purezza” e svelato la vera natura di Giuseppe Conte, ossia di un premier disposto a fare da notaio per qualsiasi accordo di governo, pur di restare a Palazzo Chigi. E per usare un’espressione renziana di inizio legislatura, adesso “pop corn”.

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