E’ un buon momento per lo yen giapponese, il cui tasso di cambio contro il dollaro si è portato sotto 110 con il sesto test nucleare realizzato dalla Corea del Nord nell’ennesimo fine settimana ad alta tensione in Asia. Quest’anno, la valuta nipponica ha già messo a segno guadagni per il 6,4% contro il biglietto verde, a dire il vero meno di quanto abbiano fatto mediamente le altre valute. Si pensi che l’euro si è apprezzato nel medesimo frangente fino al 14%, salendo a un rapporto superiore a 1,20, nel corso della settimana scorsa.

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Lo yen e il franco svizzero fungono tipicamente da cosiddetta “moneta-rifugio”, ovvero tendono ad apprezzarsi contro il dollaro nei momenti di rischio. Stavolta, non pare che la valuta elvetica stia seguendo lo stesso percorso dello yen, anche se il bilancio resta positivo di quasi il 6% quest’anno per la prima. Il fatto curioso è che gli investitori starebbero continuando a ripararsi nello yen, man mano che i toni tra Washington e Pyongyang si surriscaldano, nonostante sarebbe proprio il Giappone la prima vittima designata delle minacce di Kim Jong-Un. E’ contro il suo territorio, ad esempio, che per la prima volta è stato lanciato un missile balistico per scopi non pacifici, la settimana scorsa.

Perché lo yen resta moneta-rifugio

Com’è possibile, viene da chiedersi, che il mercato punti a investire sulla valuta di una nazione, che rischia di venire rasa al suolo per almeno una sua porzione, nel caso in cui l’escalation militare nell’area dovesse sfuggire di mano? Per rispondere a questa domanda più che legittima, bisogna partire da una premessa: lo yen risulterebbe ancora oggi sottovalutato. Non di molto, ma secondo le stime effettuate tramite la PPP (“Purchasing Power Parity” o a “parità di potere di acquisto”), di circa il 7%: Questo significa che, aldilà di ogni altra considerazione, vi sarebbe spazio per un rafforzamento del suo tasso di cambio contro il dollaro, che negli ultimi 5 anni ha perso il 28,5%.

La forza di una moneta dipende dal bilancio commerciale e finanziario dell’economia con il resto del mondo. Il Giappone ha registrato nel solo primo semestre del 2017 un surplus corrente di 10.510,1 miliardi di yen, pari a 96 miliardi di dollari. In rapporto al pil, sarebbe all’incirca il 3,5-3,6%, un livello più che ottimale. In pratica, Tokyo esporta nel resto del mondo merci, servizi e capitali in quantità superiore a quelle che importa, per cui la sua divisa risulta più richiesta che venduta.

Non solo. Per il 23-esimo anno consecutivo, il Giappone si è confermato nel 2016 il più grande creditore del pianeta con assets investiti al di fuori del suo territorio nazionale per 325.000 miliardi di yen (circa 2.970 miliardi di dollari), pari a quasi il 60% del suo pil. Molti di questi investimenti tendono a rientrare nei momenti di rischio, per effetto del processo inverso al cosiddetto “carry trade”. Il mercato tende a indebitarsi nelle valute di economie con tassi bassi di interesse, investendo in valute di economie a tassi più alti. Quando esplodono tensioni finanziarie, economiche o politiche, però, essendo queste seconde a maggior rischio, si punta a disinvestire e a riconvertire la liquidità ottenuta nella valuta iniziale.

Il precedente del 2011

Poiché il Giappone è proprio l’economia che presenta i tassi d’interesse più bassi al mondo, tra deflazione ventennale e politica monetaria ultra-espansiva negli ultimi anni, lo yen serve certamente a indebitarsi per investire altrove il denaro, ma adesso che le tensioni in Asia sono alle stelle, è presumibile che molti investitori stiano riportando i capitali a Tokyo. Quand’anche non fosse (ancora) così, il mercato specula che ciò accada, ovvero che lo yen si rafforzerà, anticipandone l’apprezzamento per quelle che sono anche note come “profezie che si auto-realizzano”.

Del resto, da mesi si teme una correzione sulle principali borse del pianeta, Wall Street per prima, ragione che spinge ulteriormente gli investitori a ripararsi in assets che li tutelino da eventuali perdite.

Infine, si tenga presente quanto accadde con il devastante tsunami del marzo 2011, conseguenza di un potente terremoto di 9 gradi della scala Richter, che si verificò al largo della regione di Tohoku. Quell’anno, lo yen chiuse a +7% contro il dollaro, rispetto al cambio vigente nel giorno precedente alla catastrofe. Come mai? Fu l’effetto del rimpatrio di miliardi di capitali detenuti all’estero da parte delle compagnie di assicurazione, in previsione delle numerose richieste di risarcimento da parte di imprese e famiglie clienti danneggiate.

Anche stavolta sarebbe del tutto simile. Se malauguratamente il Giappone dovesse essere attaccato da un qualche missile o un’arma nucleare dalla Corea del Nord, le devastazioni aprirebbero un esoso capitolo di risarcimento dei danni e le compagnie assicurative dovrebbero farvi fronte, disinvestendo parte degli assets detenuti all’estero. Il rimpatrio dei capitali e la necessaria conversione in yen rafforzerebbe la moneta nipponica, esattamente come accadde 6 anni e mezzo fa. (Leggi anche: Corea del Nord lancia missile in Giappone)