La pandemia aveva fatto temere il peggio quando era stata nei fatti riconosciuta dal regime di Kim Jong-Un lo scorso anno. La chiusura delle frontiere, imposta agli inizi del 2020 per impedire l’ingresso in Corea del Nord del Covid-19, aveva isolato ulteriormente il paese, sprofondato in una crisi anche alimentare allarmante. Ma dopo tre anni di grossi sacrifici, sembra che da Pyongyang arrivino i primi segnali di ripresa. Il quotidiano Daily NK, riferimento per gli oppositori all’estero alla feroce dittatura comunista, ha trovato che il tasso di cambio del KPW contro il dollaro si sarebbe rafforzato di circa tre quarti di punto percentuale in un paio di settimane.

Al mercato di Pyongyang, servivano il 19 marzo scorso 8.210 won nordcoreani per un dollaro, meno degli 8.290 del 5 marzo. E nella provincia settentrionale di Sinuiju, si è passati da 8.300 a 8.240 won per un dollaro.

Il leggero rafforzamento arriva dopo una fase di instabilità e sarebbe conseguente alla ripresa dei commerci con la Cina. Lo testimoniano gli uffici doganali di Pechino, secondo cui nei primi due mesi dell’anno gli interscambi con la Corea del Nord hanno ammontato a 327,4 milioni di dollari, in aumento del 140% su base annua. Grazie alla ripresa degli scambi commerciali, nel paese più chiuso al mondo stanno affluendo derrate alimentari a calmieramento dei prezzi.

Sempre il 19 marzo scorso, un chilo di riso a Pyongyang costava 5.500 KPW contro i 5.800 di due settimane prima. A Sinuiju, si è passati da 5.970 a 5.610 KPW. La maggiore disponibilità di cibo, dunque, starebbe avendo i suoi primi effetti nel contenere i prezzi alla vendita. Un sollievo per un paese molto povero, dove la stragrande maggioranza della popolazione non riesce neppure a consumare una quantità di calorie sufficiente e risulterebbe denutrita.

Crisi Corea del Nord non finita

E adesso che la pandemia non fa più paura, il regime di Kim Jong-Un spera di ottenere più valuta forte come i dollari attraverso l’invio all’estero di lavoratori nordcoreani.

Non solo in Russia e Cina, bensì anche in altri stati socialisti. Le autorità provinciali hanno ricevuto l’ordine il 4 maggio scorso di reclutare soprattutto giovani donne tra 18 e 30 anni, capaci di cucire e realizzare lavori a mano. Quanto agli uomini, si cercano perlopiù profili tecnici. I soggetti selezionati devono aver dimostrato “convinta adesione ideologica” ai principi comunisti della Corea del Nord.

L’ONU ha imposto l’embargo sulla fornitura di lavoratori nordcoreani alle imprese straniere. Non solo la quasi totalità del salario pagato va nelle casse dello stato nordcoreano, ma i malcapitati prescelti vivono in condizioni di sostanziale schiavitù, privazioni e sotto sorveglianza giorno e notte per evitare che scappino. Le imprese che ne hanno fatto richiesta negli anni passati solo soprattutto russe (siberiane, in testa) e cinesi. Molti lavoratori sono impiegati nel settore delle costruzioni e sottoposti a ritmi stressanti.

Ad ogni modo, la crisi in Corea del Nord non è finita per il semplice fatto che i commerci con la Cina stiano riprendendosi. Già prima della pandemia, l’economia domestica versava in condizioni drammatiche, anche a seguito dell’embargo imposto dalle Nazioni Unite come ritorsione per i lanci di missili balistici e gli esperimenti nucleari a scopo militari realizzati da Pyongyang. Anche negli ultimi giorni non sono mancate le provocazioni di Kim Jong-Un all’indirizzo del Giappone con il lancio di missili nelle sue acque. Il regime non sembra volere rinunciare alla minaccia nucleare, ritenendola un’assicurazione per la propria sopravvivenza in qualsiasi scenario geopolitico.

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