Sono passati più di sei mesi e mezzo dalle tragiche esplosioni al porto di Beirut, che provocarono all’inizio dell’agosto scorso centinaia di vittime e decine di migliaia di sfollati. Pochi giorni dopo, il premier Hassan Diab rassegnava le dimissioni dopo appena sette mesi dal suo insediamento. Da allora, il Libano è praticamente rimasto senza governo. Il premier incaricato Saad Hariri, lo stesso che si era dimesso nell’ottobre del 2019 a seguito delle imponenti manifestazioni di piazza contro la corruzione del suo governo, non sta riuscendo a formare il nuovo esecutivo.

E tutto questo avviene sotto gli occhi sconvolti della diplomazia internazionale, mentre la crisi economica distrugge rapidamente il benessere conquistato nei tre decenni precedenti di pace interna e quella sanitaria aggrava i problemi di un tessuto sociale già fragilissimo.

Si stima che nel 2020 il PIL sia crollato del 20% e che sia stato “bruciato” un quarto dei posti di lavoro a tempo pieno nel settore privato. La fuga dei capitali che si è scatenata con le dimissioni di Hariri di 16 mesi fa ha costretto le banche a imporre limiti stringenti ai prelievi. Lo stato non ha ancora formalmente rimosso il “peg” tra lira libanese e dollaro a circa 1.512, ma per poter convertire denaro sui conti bancari in valuta estera bisogna accettare un tasso di conversione di oltre la metà più debole.

Le famiglie stanno protestando contro l’inottemperanza delle banche a una legge approvata dal Parlamento e in base alla quale gli istituti debbano garantire la conversione ai tassi di cambio ufficiale fino a 10.000 lire (circa 5.500 euro) per gli studenti all’estero. Molti sono stati costretti a interrompere gli studi, non riuscendo né a pagare le rette, né a sostentarsi, date le limitazioni imposte all’invio di denaro all’estero e la svalutazione effettuata su di esso.

La Banca del Libano blocca gli aiuti esteri e aggrava la crisi dell’economia

Il tracollo del Libano si tira dietro la Siria

Al mercato nero, ieri per un dollaro bisognava spendere poco meno di 9.400 lire, pari a una svalutazione di fatto dell’84% in meno di un anno e mezzo.

I prezzi sono esplosi, con l’inflazione a dicembre ad essere salita sopra il 145%, trainata dai generi alimentari e le bevande non alcoliche al +400%. Praticamente, per vivere serve almeno guadagnare il triplo rispetto a due anni fa. Ma è già un miracolo se si riesce a mantenere il posto di lavoro. Tra “lockdown” anti-Covid e boom dei prezzi dei beni importati, molte attività commerciali stanno chiudendo, impossibilitati a coprire i costi.

Ufficialmente, Beirut è in default dal marzo dello scorso anno, quando non riuscì a pagare un Eurobond da 1,2 miliardi di dollari. E mentre la barca affonda, l’orchestra suona sul Titanic come se nulla fosse. I partiti non riescono a mettersi d’accordo sul nuovo governo, divisi come sempre tra mussulmani sunniti, sciiti e cristiani. La Francia ha di recente riavviato i colloqui con il Libano per premere sull’accelerazione dei tempi, anche perché senza un governo non potranno esserci quelle riforme che serviranno al paese dei cedri per uscire dalla crisi e, nell’immediato, per ottenere gli aiuti internazionali promessi già da anni. In alto mare l’iter di accesso a quelli del Fondo Monetario Internazionale, anche perché Hezbollah, il braccio armato degli sciiti filo-iraniani, non accetta prestiti in cambio di riforme impopolari.

Il dramma sta lambendo anche la confinante Siria, dove il cambio è precipitato in questi giorni ai nuovi minimi storici, servendo ormai 3.450 lire locali per comprare un dollaro, il 18% in più di gennaio e circa 73 volte in più di quel “peg” di 47 fissato dalla banca centrale fino al 2011, anno di inizio della sanguinosissima guerra civile.

I siriani più facoltosi erano soliti depositare i loro risparmi presso le banche libanesi, a cui davano credito sia per gli alti tassi d’interesse offerti, sia per la forte stabilità finanziaria di cui il paese sembrava godere da decenni. Adesso, diversi miliardi di dollari risultano “congelati” e ciò sta aggravando la crisi siriana, con capitali che non riescono a rientrare e fame di dollari che si traduce in fame vera e propria. Quella che un tempo veniva definita la “Svizzera del Medio Oriente” adesso è diventata una piccola Venezuela che si affaccia sul Mediterraneo, pure fonte di ulteriore destabilizzazione geopolitica in un’area già rovente.

Crisi finanziaria esplosiva alle porte d’Europa, tra rischio default e collasso valutario

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