E’ notizia di sabato, pur non confermata ufficialmente, che il presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, avrebbe avanzato richiesta alla Banca d’Inghilterra di vendere l’oro detenuto presso i suoi forzieri, a seguito di swaps contratti lo scorso anno con Deutsche Bank, per un controvalore di 1,3 miliardi di dollari e di trasferire il risultato di tale operazione alla banca centrale di Caracas. A quanto pare, Londra non avrebbe acconsentito, di fatto non riconoscendo l’autorità del regime “chavista” dopo che l’auto-proclamato presidente Juan Guaido è stato riconosciuto come nuovo leader dello stato andino da gran parte della comunità internazionale, tra cui gli USA di Donald Trump.

L’oro costituisce la stragrande maggioranza delle riserve valutarie del Venezuela, attualmente pari a circa 8,5 miliardi di dollari. Se Maduro non riuscisse a venderlo per incassare liquidità, il suo regime rimarrebbe a corto di ossigeno sul piano finanziario e questo lascia pensare che stavolta sarebbe davvero agli sgoccioli.

Gli USA ipotizzano la mossa del KO per costringere il dittatore a lasciare: l’embargo sul petrolio. Se l’America smettesse di acquistarlo dal Venezuela, circa 500.000 barili al giorno dovrebbero trovare nuovi mercati di sbocco dalla sera alla mattina e non sarebbe impresa facile, specie se le sanzioni della Casa Bianca avessero effetti “extra-territoriali”, ovvero colpissero anche le società straniere che facessero affari con il regime. In più, Trump arriverebbe probabilmente a vietare pure le esportazioni di petrolio verso il Venezuela, impedendo nell’immediato alla sua compagnia petrolifera statale PDVSA di entrare in possesso del greggio leggero da miscelare a quello pesante prodotto, operazione necessaria per renderlo vendibile sui mercati esteri.

Perché il petrolio in Venezuela rischia di valere niente anche con la fine del regime “chavista”

La crisi del Venezuela ha finora aiutato l’OPEC

La crisi del Venezuela inevitabilmente avrà contraccolpi pure sull’OPEC, il cartello petrolifero guidato nei fatti dall’Arabia Saudita e che riunisce 13 stati esportatori, tra cui Caracas, appunto.

Quando alla fine del 2016, fu deciso il taglio della produzione per 1,2 milioni di barili, il Venezuela chiese e ottenne di esserne esentato, data la sua drammatica situazione socio-economica. In più, la produzione nazionale del paese stava già diminuendo per conto suo e involontariamente, vale a dire per effetto dei sotto-investimenti degli anni precedenti, i quali si stavano già da tempo manifestando nell’assenza di nuove trivellazioni e nella resa calante delle estrazioni dai pozzi esistenti. In un certo senso, il Venezuela ha consentito all’OPEC di raggiungere l’obiettivo del taglio e della ripresa delle quotazioni dai 40 dollari a cui si erano portate.

Si consideri che nel 2018, PDVSA ha estratto mediamente 1,5 milioni di barili al giorno, circa 1 milione in meno rispetto ai livelli di fine 2016, quando fu deciso il taglio. Dunque, il regime “chavista” ha sottratto tanta offerta dal mercato globale. Con la sua fine apparentemente imminente, le cose cambierebbero. Come?

Esistono due scenari principali che potremmo ipotizzare nel caso in cui Maduro fosse costretto a lasciare e al suo posto s’insediasse un presidente di colore politico opposto e riconosciuto dalla comunità internazionale. Il primo sarebbe all’insegna del riposizionamento geopolitico all’interno del cartello. Venezuela e Iran fanno asse da anni contro l’Arabia Saudita, al fine di costringerla a tenere alte le quotazioni internazionali, senza contribuire in prima persona, per via delle specifiche situazioni negative in cui i due stati versano (l’Iran era sotto embargo internazionale fino al gennaio 2016 e ci è tornato nel novembre scorso). Con un Venezuela sganciatosi da Teheran, i sauditi metterebbero ancora più a tacere i loro nemici storici del mondo mussulmano e partner obbligati del cartello. Non a caso, per quanto formalmente non si sia espressa, la monarchia di Riad sarebbe molto soddisfatta degli sviluppi di questi giorni in Sud America, fiutando la fine di vecchie alleanze ostili nell’OPEC.

Accordo OPEC rispettato solo dai sauditi, Venezuela ha bluffato

La fine dell’OPEC con un cambio di regime a Caracas?

Tuttavia, non è nemmeno detto che il Venezuela resti nell’organizzazione petrolifera. Questo sarebbe uno scenario estremo, eppure realistico nel caso in cui un eventuale cambio di regime a Caracas rendesse possibile la privatizzazione di PDVSA. A quel punto, la compagnia, anche se restasse parzialmente in mano allo stato, dovrebbe rispondere al mercato e non al suo attuale e unico proprietario, sfuggendo a calcoli di interesse puramente geopolitici. I livelli di produzione, ad esempio, verrebbero fissati sulla base di ragionamenti economici basati sul profitto. Naturale che non avrebbe più senso restare a far parte del cartello e Washington premerebbe proprio per l’uscita.

Il sogno di Trump consiste nel disintegrare l’OPEC, così che le compagnie americane possano giocare in un ambiente competitivo, in cui a farla da padrone sarebbero i costi e l’efficienza gestionale, non le alleanze tra gli stati. Su questo piano, avrebbero pochi rivali, dato che la stessa compagnia saudita Aramco, per quanto abbia costi di estrazione pari a un quarto di quelli americani, necessita ancora oggi di quotazioni ben superiori a quelle di mercato per consentire allo stato di pareggiare i conti pubblici.

Trema il cartello del petrolio

Il Venezuela, indipendentemente dalle mosse della Casa Bianca, avrebbe le potenzialità per distruggere la già traballante OPEC, se nel medio termine riuscisse con una gestione più assennata a risollevare la produzione petrolifera ai livelli pre-chavisti. Sul mercato si affaccerebbero 2 milioni di barili in più ogni giorno, quasi doppiando l’ultimo taglio dell’offerta deciso dai partner a dicembre. E i sauditi certamente non si accollerebbero una nuova auto-restrizione per compensare l’aumento di uno dei membri del cartello. Certo, non sarebbe una prospettiva immediata, perché il potenziamento delle estrazioni necessita di investimenti e di tempo prima che si riuscisse effettivamente a portarle a galla.

Tuttavia, le partnership con compagnie straniere, tra cui verosimilmente proprio a stelle e strisce, renderebbe più agevole il sostenimento dei costi.

Insomma, sarebbe appena iniziato un terremoto geopolitico a Caracas, le cui scosse di assestamento faranno vittime a Teheran e forse anche tra le altre capitali dell’OPEC. Non è detto che Riad si stracci le vesti, coltivando da tempo il piano di sganciamento dal cartello per trattare a tu per tu senza fronzoli con la Russia. Sommando le produzioni dei due, si arriva già oggi ai due terzi del totale dell’organizzazione. Se, poi, il Venezuela se ne andasse, la forza negoziale di quest’ultima s’indebolirebbe ulteriormente e, a quel punto, anche i sauditi potrebbero ritenere che sia giunta l’ora di mollare i partner.

Il Venezuela emette oggi la sua “criptomoneta” fake garantita dal petrolio

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