Ieri, la BCE ha comunicato che terrà i tassi nell’Eurozona fermi per almeno fino alla prima metà dell’anno prossimo, spostando di altri 6 mesi le lancette dell’orologio per avviare la stretta monetaria. A dire il vero, ha fatto ancora di più, visto che ha reso noti alcuni dettagli tecnici sulle aste T-Ltro, fissando i tassi sui prestiti tra un massimo di 10 punti base sopra il tasso di rifinanziamento e un minimo di 10 punti base sopra quello overnight. In generale, poi, il governatore Mario Draghi si è mostrato più accomodante e intenzionato a sostenere ulteriormente l’inflazione e l’economia nell’area.

I mercati finanziari hanno reagito stranamente con disappunto. Classico “buy rumors and sell news” o ci si aspettava davvero ancora di più?

Spread e BTp: la reazione agli annunci di Draghi, tornato “colomba” e ai mercati non basta

Ad ogni modo, la Reserve Bank of Australia questa settimana ha tagliato i tassi per la prima volta dopo quasi 3 anni, la Federal Reserve ha segnalato di volerlo fare anch’essa, ponendo fine alla stretta avviata nel dicembre 2015, così come anche la Cina si mostra disposta a giocare su un mix di stimoli fiscali e monetari. Non a caso, i bond con rendimenti negativi sono esplosi a una massa di 11.000 miliardi di dollari, il doppio di appena 6 mesi fa e di soli 1.000 miliardi al di sotto del record toccato nel 2016. I tassi globali scenderanno e i mercati hanno iniziato a riposizionarsi. Come sfruttare i possibili movimenti?

Anzitutto, la discesa dei tassi significa calo dei rendimenti sovrani e corporate, vale a dire aumento dei prezzi obbligazionari. Infatti, è quello che sta accadendo un po’ ovunque, dove i rendimenti dei titoli di stato stanno toccando i minimi storici, tra cui i Bund, ma anche la periferia (esclusa l’Italia) e persino la Grecia.

Gli stessi Treasuries a 10 anni sono crollati dal 3,25% di novembre a meno del 2,10% delle ultime sedute. Se si punta a investire per speculare sui prezzi e disinvestire a valori più alti di quelli di acquisto, risulta interessante anche scommettere sui bond con rendimenti infimi o negativi, anche se per un investitore individuale sarebbero da maneggiare con estrema accortezza.

Azioni e obbligazioni, ma anche oro

Quanto ai corporate, di solito un calo dei tassi premia particolarmente gli “high yield”, in quanto beneficiano del clima più disteso tra gli investitori sulla sostenibilità dei debiti da parte di società con basso merito creditizio. Negli USA, i rendimenti medi su questo segmento sono scesi quest’anno dal 7,89% al 6,43% (-146 bp), più dei -88 bp registrati dal comparto “BBB” e dei -61 bp degli “AAA”. Nelle ultime settimane, tuttavia, i primi hanno ripreso a salire e ad ampliare gli spread con gli “investment grade”, probabilmente risentendo dei maggiori timori per l’economia americana e globale.

Di solito, se i rendimenti obbligazionari scendono, le azioni dovrebbero salire. Questo, perché trattasi di due mercati grosso modo alternativi. I primi fanno concorrenza ai secondi e viceversa. Meno rende un bond, più senso ha comprare un’azione e puntare sia sull’aumento della sua quotazione, sia ad incassare la cedola staccata. Quest’anno, l’azionariato europeo ha reso l’11,5%, quello americano poco più del 10%. Si tratta perlopiù di recuperi rispetto ai crolli accusati nell’ultimo trimestre dello scorso anno, ma nei fatti segnalano anche l’anticipo sui mercati del maggiore accomodamento monetario atteso. In un certo senso, i tassi in discesa sarebbero stati scontati. In più, se le banche centrali si mostrano più espansive, lo si deve alla debole congiuntura internazionale e questo limita la crescita delle azioni, che risentono direttamente dell’andamento dell’economia.

E l’oro? Tassi bassi favoriscono questo bene rifugio, non fosse che per il fatto di subire una minore concorrenza da assets con cedole.

Quest’anno, ha guadagnato poco meno del 4%, salendo sopra i 1.330 dollari l’oncia. Bene, ma non benissimo. In un ambiente di tassi azzerati o negativi, le sue quotazioni dovrebbero impennarsi. Se non accade, è semplicemente per l’assenza di inflazione presso tutte le principali economie. E con il petrolio ad avere ripiegato in poche settimane da 75 a 60 dollari al barile (Brent), le prospettive non sembrano affatto incoraggianti in tal senso.

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