Era il 2013, quando Cipro diventava per tutta l’Europa un modello tristemente precursore di quel “bail-in”, che anni dopo sarebbe stato introdotto con una direttiva comunitaria (Brrd) per regolare i salvataggi bancari. L’isola del Mediterraneo era stata travolta dalla crisi finanziaria, che aveva messo in ginocchio le sue banche. Poiché i clienti numericamente più cospicui erano russi, Bruxelles pensò bene di coinvolgerli nelle perdite, se titolari di conti correnti superiori ai 100.000 euro e solo per cifre superiori a tale franchigia.

Un test per verificare quali effetti potessero avere norme simili nel resto del Vecchio Continente. Da allora, il peggio è alle spalle a Nicosia. Il pil ha quasi recuperato le perdite accusate con la crisi e il tasso di disoccupazione si è più che dimezzato, passando in 5 anni dall’apice del 17% all’8,2% di giugno, appena sotto la media europea e ai minimi da 6 anni, sebbene nel 2008 viaggiasse intorno al 4%.

La Grecia ha finalmente il suo boom e grazie ai paperoni stranieri 

Fatto sta che già in queste settimane di alta stagione per il trainante settore turistico cipriota si registra carenza di manodopera, analogo problema percepito dal settore delle costruzioni. Il rapido declino dei tassi di disoccupazione non ha consentito alle imprese di prepararsi adeguatamente, magari richiedendo lavoratori dal resto della UE. Un contributo interessante al ritorno alla crescita di Cipro lo offre da tempo il “”Cyprus Citizenship by Investment”, un programma introdotto ormai nel lontano 2002, che garantisce la cittadinanza agli stranieri che investono una data somma minima di denaro sull’isola.

Inizialmente, la cifra richiesta fu di ben 10 milioni di euro, abbassata a 3 milioni nel 2013 per attirare capitali stranieri in piena crisi. Dal settembre 2016, poi, è stata ulteriormente abbassata a 2 milioni. Considerando che a Malta venga chiesto 1 milione per ottenere il passaporto, l’isola appare ancora relativamente costosa per quanti volessero sfruttare i vantaggi del programma di Nicosia: aliquote fiscali al 12,5% sull’utile delle imprese e la possibilità di circolare liberamente in altri 27 stati della UE (Regno Unito ancora compreso).

E si consideri che esso nemmeno lontanamente si avvicina ai vertici delle classifiche internazionali per esosità nell’offrire la cittadinanza ai paperoni stranieri: in Austria, servono ben 23 milioni di euro di investimenti.

Rispondendo alle richieste di Bruxelles di evitare che simili programmi, attivi in numerosi stati europei, si rivelino un viatico facile per agevolare il riciclaggio di denaro, Cipro ha posto un tetto di 700 passaporti elargibili ogni anno, al contempo allungando i tempi per rilasciarli da 3 a 6 mesi, al fine di consentire alle autorità indagini più appropriate. Nel 2017, l’isola ha rilasciato 503 passaporti d’oro, beneficiando così di investimenti per oltre 1 miliardo di euro. Tenendo conto che il pil qui vale poco più di 16,5 miliardi di euro, stiamo parlando di un impatto non indifferente sull’economia del piccolo stato mediterraneo. E cambia anche il nome del programma in “Cyprus Investment Programme”, un modo per non legare formalmente il concetto di cittadinanza al “vile” denaro, anche se così è.

Non solo Cipro “vende” la cittadinanza

E in tutta la UE nel 2016 risultano essere stati concessi 863.300 passaporti, il 19% in più dell’anno precedente, di cui l’87% a cittadini extra-UE. Molti di questi sono frutto proprio di programmi noti come “golden visa”, studiati anche da Austria, Belgio, Bulgaria, Grecia, Lettonia, Lituania, Malta, Portogallo, Spagna e Regno Unito per attirare ricchi residenti. La Grecia di Alexis Tsipras ha appena comunicato l’intenzione di prorogare lo schema introdotto negli anni passati, anche per via del successo riscosso negli ultimi mesi. Qui, l’investimento minimo richiesto ad oggi è di 250.000 euro nel settore immobiliare. E l’Italia? Niente cittadinanza a pagamento, ma lo scorso anno è partita quella che erroneamente è stata definita dalla stampa la “flat tax” per gli stranieri.

In realtà, si tratta di una tassa in somma fissa (“lump-sum tax”, volendo utilizzare la terminologia inglese) da 100.000 euro all’anno, che il neo-residente paga sui redditi maturati all’estero, fermo restando che su quelli percepiti in Italia sconta le stesse aliquote previste per i cittadini italiani.

Per quanto la misura abbia beneficiato di scarsa copertura mediatica e perlopiù dai toni polemici, essa avrebbe contribuito ad attirare Cristiano Ronaldo alla Juventus, considerando che il calciatore portoghese ha dichiarato nel 2017 redditi per circa 160 milioni di euro diversi dall’ingaggio, ovvero legati allo sfruttamento della sua immagine e altre attività. Su questi, CR7 pagherà in Italia con il trasferimento della residenza appena 100.000 euro, vale a dire un’aliquota di nemmeno lo 0,1%, mentre il suo ingaggio bianconero sarà sottoposto alle aliquote Irpef ordinarie. Qualcuno storcerà il naso, adducendo ragioni di equità sociale, ma in meno di un mese dalla presentazione ufficiale, l’attaccante ex Real Madrid ha rianimato la Serie A, ossia il calcio italiano, una delle principali industrie dell’Italia con un giro d’affari di 2,9 miliardi solamente per le prime 20 squadre. Sono le basse tasse ad attirare i capitali.

Ronaldo alla Juve, grazie anche al fisco. Ecco come l’Italia attira il campione portoghese 

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