Il G7 in Cornovaglia ha lanciato un messaggio fin troppo chiaro alla Cina di Xi Jinping: l’era dell’appeasement dell’Occidente sta volgendo al termine. Il riferimento al mancato rispetto dei diritti umani e all’esercizio di pratiche contrarie al mercato ha suggellato il cambio di passo delle principali superpotenze della Terra nei confronti di Pechino.

Nelle ultime settimane, è accaduto che l’amministrazione Biden abbia commissionato un’indagine per accertare l’origine del Covid. Alla Casa Bianca, si leva il sospetto che il virus sia uscito dal laboratorio di Wuhan.

L’ex presidente Donald Trump lo sostiene praticamente da sempre, ma i media e la politica a Washington avevano optato per non concedergli credito prima delle elezioni presidenziali dello scorso novembre. Adesso, gli stessi scienziati del livello di Anthony Fauci ammettono candidamente che tale teoria sarebbe quantomeno credibile.

Nel frattempo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che fino a qualche mese fa era pappa e ciccia con il regime cinese, lamenta che i suoi funzionari non abbiano avuto accesso alla documentazione e alle informazioni richieste, quando hanno messo piede a Pechino. Una presa di distanza, che conferma quanto stia avvenendo clamorosamente nel dopo-Trump: la Cina è finita nel mirino degli americani. Se fosse accertato – chissà quando e come – che davvero il Covid-19 sia stato frutto di un esperimento finito in tragedia, il resto del mondo pretenderebbe dalla Cina solide spiegazioni, oltre a lauti indennizzi. E la credibilità del regime comunista si sbriciolerebbe.

Cina di Xi sul banco degli imputati

Nel Regno Unito, alcuni osservatori politici sono convinti che il caso sarebbe di tale gravità, che pagherebbe in prima persona proprio Xi. Il suo potere sarebbe rovesciato ad opera dei silenti oppositori interni. L’America punta ad approfittare della tematica sensibilissima per l’opinione pubblica mondiale, con l’obiettivo di arginare l’ascesa apparentemente inarrestabile della superpotenza cinese.

Da qui a pochi anni, il PIL del Dragone supererebbe quello americano. E c’è anche il rischio che lo yuan diventi una valuta di riferimento in Asia, scalzando il dollaro. Con la “Via della Seta”, poi, Pechino sta allungando i suoi tentacoli su una cinquantina di stati tra Asia ed Europa, puntando a soppiantare quella che un tempo fu l’Unione Sovietica nel confronto con Washington.

Ma 3,8 milioni di morti per Covid nel mondo sarebbero fatti pesare sulla Cina. Scartiamo l’ipotesi remota di indennizzi, anche perché la quantificazione dei danni sarebbe enorme e insostenibile per Pechino. Né il regime accetterebbe mai di pagare un solo centesimo, altrimenti riconoscerebbe le proprie responsabilità. Le sanzioni sarebbero di altro tipo: l’isolamento internazionale sul piano diplomatico e persino commerciale. Una strategia che non può essere adottata dalla sera alla mattina. Troppi sono gli intrecci economici ormai consolidati tra Cina e resto del mondo. Vi basti pensare che più della metà delle terre rare nel mondo si producono qui, per cui l’industria dell’elettronica, degli elettrodomestici, etc., rischierebbe una crisi senza precedenti nel caso di chiusura dei mercati. E la carenza di chip di questi mesi segnala quanto grave sia il problema.

L’impatto dell’accerchiamento sull’economia cinese

L’economia cinese è dipendente dalle esportazioni, pur molto meno che in passato. L’attivo commerciale vale circa il 3% del PIL, la metà del periodo precedente la crisi finanziaria del 2008. Ad ogni modo, i bassi consumi interni costringono il regime a continuare a puntare sull’export per crescere. E per farlo, anche lo yuan è tenuto debole contro il dollaro. L’introduzione di barriere doganali (e non) crescenti contro le merci cinesi da parte non solo degli USA, bensì pure dell’Europa, finirebbe per spostare il driver della crescita sulla domanda aggregata domestica.

Tuttavia, gli investimenti pubblici sono già elevatissimi, per cui a compensare il calo della domanda esterna sarebbero i consumi, oggi a meno del 40% del PIL contro il 70% degli USA e il 60% di gran parte delle economie avanzate.

Ma i consumi aumenterebbero solo a seguito di un aumento dei redditi e ciò implicherebbe il rischio di ridurre la produttività del lavoro, abbassando il tasso di crescita del PIL. Servirebbe, quindi, una politica fiscale espansiva, a sua volta sostenuta da una monetaria altrettanto accomodante. In soldoni, spesa in deficit finanziata con bassi tassi d’interesse. Uno scenario del genere deprezzerebbe lo yuan, compensando almeno in parte l’aumento dei dazi sulle merci cinesi. Per contro, la valuta perderebbe appeal e non sarebbe più percepita come un’alternativa prossima al dollaro. E, soprattutto, è sostenibile una banca centrale ancora più espansiva dopo avere incoraggiato già dal 2009 un boom allarmante del debito privato?

Le criticità a cui l’economia cinese andrebbe incontro sarebbe tante e di difficile soluzione. Già oggi, il regime si è visto costretto a permettere anche il terzo figlio per rimediare alla sciagura demografica provocata da decenni di politica del figlio unico. A mettere il dito nella piaga punta l’America, che malgrado i toni più morbidi dell’amministrazione democratica, conserva gli stessi obiettivi di quella repubblicana: colpire la seconda superpotenza mondiale, arrestandone lo sviluppo e relegandola tutt’al più a una forza regionale di tutto rispetto, ma niente affatto temibile sul piano geopolitico, economico, finanziario e militare. Il G7 ha posto le basi per una reazione allo strapotere di Xi. E il dialogo appena avviato con il Cremlino, pur tormentato, serve ad evitare che la Russia finisca nella sfera d’influenza sbagliata. Il “divide et impera” di romana memoria non muore mai.

[email protected]