Il simposio delle banche centrali a Jackson Hole, Wyoming (USA), organizzato come ogni anno dalla Federal Reserve, si è concluso e contrariamente alle attese delle scorse settimane – scematesi negli ultimi giorni, anche per effetto di dichiarazioni rilasciate da funzionari della BCE – i principali governatori non hanno commentato le loro prossime mosse in politica monetaria. Non lo hanno fatto Janet Yellen e Mario Draghi, a capo dei primi due istituti al mondo per importanza. In particolare, l’italiano si è soffermato sulla robustezza della crescita mondiale, ponendo l’accento sulle sfide che l’attendono, tra cui quella demografica.

Ha accennato sì agli stimoli monetari ancora in corso di attuazione a Francoforte, ma solo per rivendicarne la necessaria esistenza anche per il prossimo futuro.

Venerdì scorso, mentre Draghi prendeva la parola dinnanzi ai colleghi di mezzo pianeta, il cambio euro-dollaro si rafforzava fino a 1,1950, il livello più alto dal gennaio 2015, mese in cui la BCE annunciò il varo del “quantitative easing” da 60 miliardi al mese. Al momento, il cross tra le due valute si attesta a 1,1933, segno che il mercato ha colto nelle (non) parole di Draghi un segnale “hawkish”. (Leggi anche: Cambio euro-dollaro, quale sarebbe il tasso obiettivo della BCE?)

A dire il vero, avrà inciso più di ogni altra cosa il mancato riferimento della Yellen a un terzo aumento dei tassi USA a breve. Il mercato ha pressappoco già scontato una nuova stretta entro l’anno da parte della Fed e ogni segnale che vada contro tale attesa non fa che indebolire il dollaro, che in queste ore risente anche dell’uragano Harvey, il più potente dai tempi di Katrina nel 2005 e le cui piogge battenti sul nord-est del Texas sono state definite dai meteorologi “senza precedenti”. Preoccupazioni, in particolare, vi sono per l’industria energetica, che qui ha il suo cuore negli USA, sebbene le quotazioni del Wti non stiano avanzando, anzi arretrano al momento di quasi l’1%.

Cambio euro-dollaro troppo forte non aiuta l’economia

Dicevamo, cambio euro-dollaro ai massimi da 31 mesi. Per Draghi non suona come una buona notizia, perché se è vero che un euro forte rispecchi una migliorata economia nell’Eurozona, d’altra parte esso potrebbe fare danni; in primis, rallentando la crescita dell’inflazione, già sotto il target e all’1,3% tendenziale a giugno e luglio; secondariamente, impattando sulle esportazioni, che sorreggono l’economia nell’area. A tale proposito, gli analisti ritengono che la minaccia alla crescita del pil nell’unione monetaria si concretizzerebbe con un cambio stabilmente oltre 1,20 tra euro e dollaro. (Leggi anche: Cambio euro-dollaro verso 1,20, ma perché i rendimenti sono crollati?)

Proprio adesso che la crescita economica nell’area si è diffusa e inizia a dare i suoi frutti, con la disoccupazione scesa ai minimi dal 2009, la BCE non può permettersi di vedersi minacciati gli obiettivi, anche perché con le elezioni francesi si è aperta apparentemente una finestra di opportunità per l’allentamento delle tensioni politiche nell’area, la quale deve essere supportata, però, dal buon andamento dell’economia, altrimenti rischia già di chiudersi con le elezioni italiane tra pochi mesi.

Board BCE, cosa accade a settembre?

L’8 settembre, Draghi terrà il sesto board dell’anno a Francoforte e gli analisti sono divisi tra quanti credono che le buone indicazioni provenienti dai dati macroeconomici spingeranno la BCE ad annunciare l’imminente “tapering” e quanti, al contrario, restano convinti che l’istituto vorrà prendersi ancora qualche mese di tempo prima di agire, anche perché bisogna accertarsi della tempistica della stretta negli USA.

Per questo, prevediamo che tra due giovedì non dovrebbe esservi alcun annuncio nel senso di una riduzione degli stimoli nell’Eurozona, mentre è probabile che ciò accadrà alla fine di ottobre, quando Draghi avrà la necessità di informare i mercati sulle prossime mosse, dato che il QE scade formalmente a dicembre e che gli investitori dovrebbero essere preparati in tempo a capire cosa li attenda per i mesi successivi, al fine di evitare una volatilità eccessiva sui mercati finanziari e potenzialmente destabilizzante.

(Leggi anche: Super-euro fa sorridere Draghi, ecco perché a settembre non sarà tapering)

Il “tapering” potrebbe essere venduto come un ulteriore allungamento del piano di acquisti, vale a dire che dal gennaio 2018 non assisteremo quasi sicuramente a un azzeramento, semmai a un taglio dai 60 miliardi mensili attuali. Gli analisti ipotizzano che il QE verrà azzerato nel terzo trimestre dell’anno prossimo con andamento scalare, cosa che ci spingerebbe a ritenere che un rialzo dei tassi nell’Eurozona non arriverebbe prima della fine dell’anno prossimo, forse agli inizi del 2019. E’ verosimile, infatti – sempre che le condizioni macro lo consentano – che Draghi voglia lasciare il suo incarico nell’autunno del 2019, avendo avviato la svolta monetaria tanto attesa, gestendola nelle sue prime fasi ed evitando che essa venga del tutto concepita dal successore, il quale molto probabilmente parlerà tedesco.