Tra qualche giorno sapremo chi avrà vinto le elezioni politiche del 25 settembre. Molto probabile che il 26 mattina ci sveglieremo conoscendo chi sarà nominato successore di Mario Draghi alla guida del prossimo governo. Il futuro premier, uomo o donna che sia, avrà tutt’altro che un debutto facile. Ci sono l’inflazione che galoppa, la crisi energetica, la recessione economica in vista, tensioni sul debito pubblico italiano e una guerra nel cuore d’Europa. E come se tutto questo già non bastasse, arriva anche la brutta sorpresa sulle pensioni.

Vi ricordate come aveva debuttato in questa campagna elettorale Giorgia Meloni, dai sondaggi accreditata come il più probabile successore di Draghi? Aveva invitato gli alleati Silvio Berlusconi e Matteo Salvini a spararle meno grosse sul capitolo previdenziale, così come sugli altri temi. Il primo promette di innalzare le pensioni minime a 1.000 euro al mese, il secondo vuole introdurre quota 41 e cancellare la legge Fornero.

Rivalutazione assegni, extra-costo fino a 10 miliardi

Se e quando Meloni andasse al governo, potrebbe guardare in faccia i due per pronunciare un laconico: “ve lo avevo detto”. Già, perché i numeri sulle pensioni rischiano di provocare un grosso mal di testa. Con l’inflazione alle stelle, la rivalutazione degli assegni sarà molto più pesante a partire da gennaio. Gli assegni fino a quattro volte il trattamento minimo dovranno essere adeguati al 100% e fino ad arrivare al 75% dell’inflazione per gli importi superiori alle cinque volte il minimo.

L’inflazione acquisita al mese di agosto è salita già al 7%, ma gli analisti temono che possa arrivare a superare l’8%. Oltre questa soglia, il costo a carico dell’INPS sarebbe di 25 miliardi di euro. Rispetto alle previsioni, 8-10 miliardi in più. In altre parole, il prossimo governo rischia di ritrovarsi sin dal primo giorno un “buco” nei conti previdenziali di mezzo punto di PIL.

Dovrà coprirlo trovando le risorse necessariamente, essendo la rivalutazione delle pensioni un fatto automatico e obbligatorio. A quel punto, non resterebbe un solo centesimo per misure come l’aumento delle pensioni minime o quota 41. Ad essere onesti, soldi non ce ne sarebbero neanche in assenza di “buchi” legati alla rivalutazione.

Redditi fermi, corre solo la spesa per le pensioni

L’incidenza della spesa per le pensioni sul PIL già è attesa in crescita dal 15,7% al 16,2%. Superare la legge Fornero implicherebbe ulteriori risorse da stanziare per anticipare l’età del pensionamento. Ma l’Italia già spende troppo per la previdenza, ponendosi insieme alla Grecia ai vertici delle classifiche internazionali. Di più i mercati non ce lo concederebbero, dato che essi ci forniscono la liquidità con cui rinnoviamo le scadenze del debito pubblico e ne emettiamo di nuove. Ma chi ci presterà i soldi se li destiniamo a una voce di spesa “non produttiva”?

I buoni propositi dovranno attendere. Peraltro, il fatto che la rivalutazione degli assegni comporti uno squilibrio dei conti INPS segnala il vero grosso problema dell’Italia: i redditi sono fermi. Se questi crescessero quanto l’inflazione, da una parte l’INPS spenderebbe di più per pagare le pensioni, dall’altro incasserebbe maggiori contributi previdenziali. I conti resterebbero preservati. Ma le cose non stanno così. Gli stipendi dei lavoratori dipendenti e i redditi degli stessi autonomi sono quasi invariati. Anzi, la crisi energetica rischia di far chiudere migliaia di imprese e di ridurre così il gettito fiscale e contributivo. La coperta è corta e tirarla per mandare in pensione i lavoratori prima non sarebbe né saggio, né possibile.

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