Si vota il 18 ottobre per scegliere il nuovo presidente della Bolivia e i sondaggi indicano la possibile vittoria al primo turno del candidato socialista del MAS, Luis Arce, sul centrista ed ex presidente Carlos Mesa. Ma l’erede designato di Evo Morales per la sinistra non riuscirebbe ad evitare il ballottaggio, al quale rischierebbe di perdere nel caso in cui tutte le opposizioni facessero fronte comune. La presidente ad interim, Jeanine Anez, ha ritirato la sua candidatura, data troppo bassa nei sondaggi, al fine di non disperdere i consensi del fronte anti-MAS.

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Queste elezioni arrivano a un anno di distanza da quelle rivinte per la quarta volta consecutiva da Morales, ma annullate per via dei numerosi brogli registrati e che portarono migliaia di persone in piazza per chiedere le dimissioni del capo dello stato, sempre più avvertito come “dittatore” e “corrotto”. Questi cercò e trovò riparo in Argentina, dove nel frattempo era risalita al potere la sinistra.

La Bolivia ha voglia di cambiare, ma teme di farlo nel momento peggiore. La sua economia risulta particolarmente colpita dall’emergenza Covid e quest’anno è attesa in calo del 6%. Il paese registra circa 8.230 decessi e 138 mila contagi, numeri un po’ alti per una popolazione di 12 milioni di abitanti e abbastanza giovane. Anche per questo, la popolarità del governo in carica è molto bassa. Del resto, la disoccupazione è salita all’11% e molti cittadini di stanno chiedendo se non sia il caso di procrastinare l’esperienza del “capitalismo socialista” dei passati 14 anni.

Nei giorni scorsi, i ministri dell’Economia, del Lavoro e dello Sviluppo si sono dimessi per le forti divisioni interne, costringendo Anez a nominare i sostituti a poche settimane dalle elezioni presidenziali, inviando ai boliviani un segnale di debolezza.

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Pare che alla base dello scontro vi fosse l’opposizione dei dimissionari al piano di privatizzazione dell’ELFEC, la compagnia elettrica nazionale nazionalizzata da Morales.

Lo spettro di quest’ultimo è più presente che mai nella vita pubblica. Una vittoria di Arce infrangerebbe il sogno di cambiamento che spinse un anno fa parte dei boliviani a reagire ai brogli. Ma nel paese le divisioni non sono solo politiche, bensì anche sociali ed etniche. Difficile mettere insieme gli interessi di tutti. Mesa punta il suo messaggio sulla promessa di creare posti di lavoro. Basterà?

I risultati elettorali avranno conseguenze geopolitiche in tutto il Sud America. Dopo il ritorno dei peronisti al governo di Buenos Aires, sarebbe un brutto segnale per l’America. Il Perù fa notare, poi, come la Bolivia sia diventata un hub per il traffico illegale di oro, mercurio e cocaina. Attraverso di essa, la droga arriva in Brasile, Argentina ed Europa.

E Morales fu coltivatore di coca prima di arrivare alla presidenza, provenendo dagli stessi ceti umili di cui si fece rappresentante nel corso dei suo tre mandati. Il suo appeal resta elevato proprio per la paura degli indigeni di non trovare adeguato ascolto ai loro problemi nelle istituzioni, visto che l’ex presidente era uno di loro.

Preoccupa, intanto, il calo delle esportazioni di gas, che dall’apice dei 7 miliardi di dollari nel 2014 sono scese a meno di un quarto, assottigliando le riserve valutarie a 6,3 miliardi al 30 giugno scorso. Sono cresciute negli ultimi anni le esportazioni di carne bovina, ma non tali da compensare l’ammanco sul fronte energetico. Un mondo di opportunità, invece, si aprirebbe con le esportazioni del litio, minerale di cui il paese è ricco e business che fa gola a molte società straniere per l’impiego diffuso nell’elettronica di consumo e nella produzione delle batterie per le auto elettriche.

Inutile dire che una vittoria del candidato socialista ringalluzzirebbe il regime venezuelano di Nicolas Maduro, che oltre all’Argentina potrebbe godere del sostegno di un altro stato sudamericano nell’area. In gioco tra due domeniche c’è più della stessa Bolivia.

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