Venerdì di sconti lo scorso 29 novembre per il “Black Friday”, ormai diventata una festa commerciale globale. Ma non è stato per questo che quel giorno il prezzo del petrolio sia arrivato a scendere del 4,5% e sotto 61 dollari al barile per il Brent, vivendo il suo “venerdì nero”. Ad avere fatto crollare le quotazioni è stata la pubblicazione dei dati sulle estrazioni quotidiane negli USA nella settimana al 22 novembre, salite a 12,9 milioni di barili, nuovo record storico. Dall’inizio dell’anno, le compagnie petrolifere americane hanno accresciuto l’offerta giornaliera di 1,2 milioni di barili, mentre la saudita Aramco l’ha ridotta di circa 300.000 barili e le concorrenti russe di circa 100.000.

IPO Aramco, mercato “freddo”sul petrolio saudita e il regno è preoccupato

Ancora una volta, l’OPEC si riunirà a Vienna questa settimana senza alcuna prospettiva positiva per il greggio da qui ai prossimi mesi, malgrado i tagli all’offerta per 1,2 milioni di barili al giorno, fissati ormai ben tre anni fa e senza i quali i prezzi sarebbero sprofondati a livelli ben inferiori. Tuttavia, l’America frustra gli obiettivi del cartello, se è vero che più che compensa l’entità della sua auto-restrizione dell’offerta.

E così, i sauditi puntano a incrementare il taglio di 400.000 barili, avvalendosi della collaborazione della Russia e di altri produttori minori, i quali dall’esterno dell’OPEC si sono impegnati sin da fine 2016 a tagliare la loro offerta di quasi altri 600.000 barili al giorno complessivamente. Di solito, Riad non si mostra favorevole a queste politiche di cartello, che finiscono per caricare su di sé l’onere e a favorire produttori concorrenti come il nemico iraniano. Stavolta, però, deve fare di tutto per sostenere il prezzo dell’IPO di Aramco, che sarà svelato tra due giorni. Con un petrolio in picchiata nel caso di flop del vertice, le difficoltà per il colosso statale saudita aumenterebbero in misura significativa.

Il nuovo taglio sarà un bluff

E dire che tra sanzioni americane contro le esportazioni dell’Iran e collasso della produzione nel Venezuela, ci sarebbero tutte le condizioni per una lievitazione delle quotazioni su livelli ben maggiori. Invece, salvo momenti di tensione internazionale, come subito dopo gli attacchi via drone di Teheran contro Aramco, i prezzi non si spostano rispetto al range dei 60-65 dollari per un barile di Brent, visto che l’offerta fuori dall’OPEC continua a sovrastare la domanda in rallentamento. Non aiuta nemmeno il super dollaro, che risente della relativa forza dell’economia americana, pur anch’essa in rallentamento.

Il taglio dell’offerta, però, è servito sinora a superare le fasi di emergenza, non certo a ridare stabilmente forza al mercato globale del greggio. Si sta realizzando l’incubo previsto dal regno, ovvero che le trivelle nel Golfo Persico sarebbero state fatte funzionare non a pieno regime, ma in cambio le compagnie americane si sarebbero imposte sul mercato mondiale con la loro efficienza e approfittando del sollievo offerto loro proprio dall’OPEC. Gli USA sottraggono quote di mercato a sauditi e russi da sotto il loro naso, espandendo le relazioni commerciali in Asia, il terreno di crescita più promettente per le esportazioni petrolifere, essendo il continente a più alto tasso di crescita economica e di fabbisogno energetico.

L’accordo sul taglio dell’offerta attuale resterà valido fino al marzo 2020, ma quasi certamente verrà prorogato e, per quanto trapela da ieri, finanche amplificato per provocare quell’effetto sorpresa sui mercati, il quale nel breve sosterrebbe le valutazioni dell’IPO di Aramco. Ma gli investitori difficilmente cadranno nel tranello, perché sanno già che dalla prossima settimana l’accordo verrebbe minacciato dalle divisioni interne al cartello, oltre che dai fondamentali sfavorevoli. I sauditi puntano a venderci il loro ultimo bluff.

Rivoluzione nel trading del petrolio

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