Forse, non sapremo mai chi abbia inventato Bitcoin, chi vi sia dietro allo pseudonimo di Satoshi Nakamoto. Ma sappiamo quando avvenne tale invenzione, cioè nel 2009, ormai oltre un decennio fa. E che ci sono voluti 6-7 anni per il vero boom, con quotazioni stellari raggiunte alla fine del 2017 e superate nei giorni scorsi. La tempistica potrebbe essere del tutto casuale, ma anche no. La nascita della “criptovaluta” si è avuta per mezzo di un algoritmo reso pubblico ai tempi in cui la Federal Reserve eseguiva il suo primo programma di acquisti di assets, noto come “quantitative easing”.

Si trattò di misure straordinarie, di una politica monetaria non ortodossa, che contemplava anche l’azzeramento dei tassi d’interesse. Il dollaro sprofondò sui mercati, ma l’elevata liquidità iniettata da Atlanta servì a salvare Wall Street, il sistema creditizio e, per estensione, la stessa economia americana.

Il boom di Bitcoin spiegato anche grazie all’halving. Prossimo boom nel 2024?

Con qualche anno di ritardo e numerose polemiche in più, la BCE seguirà l’esempio sin dal 2014, quando adotterà tassi negativi sui depositi overnight e implementerà il suo QE sin dal marzo 2015. Il resto è praticamente cronaca. Nessuna banca centrale è riuscita sinora a uscire dai programmi monetari varati in risposta alla crisi finanziaria globale del 2008-’09. Ci aveva provato la Fed pochi mesi prima del Covid con la riduzione del suo bilancio, stoppata quasi all’istante sulla reazione furiosa di Wall Street da un lato e della Casa Bianca dall’altro. Alla BCE è finita in farsa. Stop al QE da inizio 2019 e subito dopo dibattito sul suo ripristino, avvenuto dal novembre scorso.

Cresce la sfiducia verso le banche centrali e i governi

Le stamperie delle banche centrali stanno tenendo a galla bilanci pubblici e anche aziendali sempre meno sostenibili. In un certo senso, puntano a mantenere quella pace sociale che rischierebbe di saltare nel caso in cui governi e manager dovessero trovarsi costretti a far quadrare i rispetti conti, tagliando la spesa pubblica, alzando le tasse e licenziando lavoratori.

Al contempo, i prezzi degli assets finanziari si stanno gonfiando in misura incontrollata. Ormai, obbligazioni per 18 mila miliardi di dollari nel mondo offrono rendimenti negativi. Siamo all’assurdo che chi presta denaro ai governi – in qualche caso, persino alle aziende private – debba pagare per farlo. Le azioni sono spesso vistosamente sopravvalutate secondo diversi parametri, tra cui il rapporto con gli utili. Basti seguire una qualsiasi IPO per notare che anche in poche ore, se non minuti, le quotazioni possono esplodere a doppia cifra e senza un reale perché.

Siamo dentro una gigantesca bolla finanziaria, specchio di una svalutazione silente portata avanti da banche centrali e governi non già tramite l’inflazione, quanto la repressione dei costi del debito, alias della remunerazione del risparmio sui mercati a reddito fisso. I finanzieri, che fanno parte di questo circolo, lo sanno meglio degli altri. E non a caso, il boom di Bitcoin sembra coincidere temporalmente con i momenti di massima follia dei banchieri centrali. In questi giorni, Eric Peters, fondatore di One River Asset Management, ha dichiarato che intende dar vita a una “fiduciaria blue-chip” per le “criptovalute”. Uno dei suoi investitori, Ruffer LLP, ritiene che Bitcoin sia una sorta di polizza di assicurazione contro la continua svalutazione delle principali valute mondiali.

Avete capito cosa ci sarebbe dietro il recente boom di Bitcoin? Non più pura speculazione, com’è avvenuto forse negli anni passati, quanto una ragionata strategia di numerose case d’investimento di ritagliarsi uno spazio estraneo alle manovre delle istituzioni pubbliche, sottraendosi alle conseguenze delle azioni di queste ultime. Poiché la moneta digitale ha un’offerta limitata e non è controllabile da nessuno, si spera che possa salvaguardare il potere di acquisto dei capitali investiti, contrariamente agli assets tradizionali.

Se dietro a Bitcoin ci fosse quella parte della finanza meno fiduciosa verso gli esiti di un’era di “stampa e spendi”, forse sarebbe il caso di prenderlo ancora più sul serio di quanto non abbiamo già fatto sinora.

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