Domenica 22 ottobre, i residenti di Lombardia e Veneto saranno chiamati ai due rispettivi referendum per ottenere maggiore autonomia in ambito fiscale. Niente a che vedere con le rivendicazioni secessioniste della Lega Nord di un tempo, niente a che fare nemmeno con quanto sta accadendo in Catalogna. Qui, semmai si tratta di consentire a Milano e Venezia di trattenere una quantità maggiore di risorse nelle due regioni. Una richiesta che dire legittima è persino riduttivo, considerando che i cittadini lombardi e quelli veneti ogni anno versano nelle casse di Roma circa 75 miliardi di euro in più di quanto ricevano in servizi.

Soldi, che chiaramente vengono redistribuiti in favore delle regioni più povere, quelle del sud. Adesso, i governatori Roberto Maroni e Luca Zaia vorrebbero ottenere dagli elettori un mandato per trattare con il governo nazionale, sulla base dell’art.117 della Costituzione, concessioni sulle entrate fiscali. La Corte Costituzionale e il governo stessi hanno definito legittimi i due quesiti referendari. (Leggi anche: Referendum Lombardia e Veneto, questione da oltre 70 miliardi all’anno)

Il centro-destra è ufficialmente schierato a favore dei referendum, ma dietro alla facciata si nascondono divisioni e tensioni persino grandi. La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ha invitato i suoi elettori nelle due regioni a non partecipare al voto, attirandosi le ire del governatore lombardo, che ha messo in discussione l’alleanza. Tuttavia, i dirigenti del suo partito hanno rassicurato che la loro posizione rimane favorevole, stemperando le tensioni. Paradossalmente, per quanto i referendum siano un cavallo di battaglia della Lega Nord, essi non trovano il plauso del segretario Matteo Salvini, preoccupato ormai da tempo a creare un partito nazionale, che superi le rivendicazioni nordiste. A dirla tutta, la consultazione sta assumendo quasi il volto della sfida da parte dei governatori di vecchia fedeltà bossiana contro un leader sempre più distante dai proclami storici del Carroccio.

Non a caso, il governatore azzurro filo-salviniano, Giovanni Toti, non ha aderito all’iniziativa per la sua Liguria.

E arriviamo a Silvio Berlusconi. Egli da un lato avrebbe tutta la convenienza a insinuarsi nelle divisioni interne alla Lega, schierandosi per il “sì”, cosa che ha formalmente fatto la sua Forza Italia, accusata, tuttavia, da Maroni e Zaia di essere un sostenitore troppo cauto e poco entusiasta della causa per strappare maggiori risorse a Roma. Per due ragioni essenziali, però, l’ex premier non sarebbe affatto contento dei referendum. Il primo è che nel caso di vittoria, l’esito sarebbe percepito come un successo di Salvini, indebolendo la propria leadership nel centro-destra. Il secondo riguarda le preoccupazioni che questo esito favorevole scatenerebbe tra gli elettori del sud, i quali vedrebbero nelle rivendicazioni del lombardo-veneto una sorta di spostamento dell’asse politico nel centro-destra verso nord, a discapito dei propri interessi.

Il dilemma di Forza Italia

In fondo, più risorse a Lombardia e Veneto significa minori stanziamenti per Sicilia, Campania, Sardegna, Puglia, Calabria, etc. E’ un gioco a somma zero, non esisteranno soluzioni che accontentino tutti, semmai solo un compromesso onorevole, non di più. Comunque sia, sui due referendum per l’autonomia fiscale si gioca il futuro del centro-destra, almeno sul piano dell’identità. Schierarsi contro evidenzia la tentazione dei partiti che compongono la coalizione di restare ancorati al passato, di non perseguire alcuna linea realmente riformatrice degli assetti istituzionali e dell’agenda economica, promesse che almeno fino alle passate legislature venivano formalmente sbandierate.

Forza Italia rischia di restare vittima dei suoi stessi giochi politici, ampliando le distanze con quel ceto medio del nord, che pure è stato nucleo del suo elettorato per oltre un ventennio. Nel suo caso, si tratterà di scegliere se diventare il partito della conservazione dello status quo o se porsi a capo di un cambiamento di stampo liberale, che in un quarto di secolo non gli è riuscito proprio per una classe dirigente spesso antitetica rispetto ai programmi, oltre che per alleati poco avvezzi alle riforme.

Berlusconi dovrà decidere se all’ultimo giro vorrà fare del suo partito un raccoglitore di istanze eterogenee e complessivamente assistenziali, oppure se ambire a tornare in scena con un progetto chiaro e dall’identità liberale forte, come dal 1994 al 2013. Nel secondo caso, non potrebbe che appoggiare i referendum. (Leggi anche: Rinascita politica di Berlusconi a 81 anni, Palazzo Chigi non più così lontano)