Berlusconi e De Benedetti, come dire il diavolo e l’acqua santa (fate voi chi sia l’uno e l’altro), il bianco e il nero, sempre agli antipodi nel panorama del capitalismo italiano. Entrambe le famiglie hanno i loro guai con le rispettive aziende che hanno creato e di cui fiutano la crisi da tempo. In questi giorni, è esplosa come una bomba la querelle tra Carlo De Benedetti (CdB) e i figli, dopo che l’Ingegnere ha avanzato un’offerta per rilevare il 29,9% di GEDI, la holding che controlla il Gruppo L’Espresso che edita La Repubblica, La Stampa, Il Secolo XIX e Business Insider Italia solo per limitarci alle grandi testate.

I figli Marco e Rodolfo, a capo di CIR, al 43% di GEDI, hanno respinto sdegnati l’offerta ai prezzi di mercato, giudicandola insufficiente. La reazione del padre è stata durissima e inattesa nei toni: “i miei figli non sanno fanno gli editori, non hanno passione e sono ingenui perché cercano un compratore in Italia, che non c’è”.

CdB vorrebbe tornare a capo dell’impero editoriale che ha creato, ritenendo i figli pubblicamente degli incapaci. Mai il motto “i panni sporchi si lavano in famiglia” era stato così disatteso. E mai avremmo pensato che potesse accadere qualcosa di simile in una delle famiglie del capitalismo italiano più riservate e votate al bon ton. Qual è il problema di fondo? Anche il Gruppo L’Espresso è attraversato dalla crisi della carta stampata e nonostante sia stato tra i pionieri dell’informazione online, negli ultimi tempi subisce la concorrenza de Il Corriere della Sera di Urbano Cairo, forse risentendo dello smarrimento dell’elettorato progressista, di cui da sempre è riferimento indiscusso in Italia.

Il titolo GEDI è schizzato del 15% da 25 a 29 centesimi dopo l’annuncio (respinto) dell’offerta. “Dovrebbero ringraziarmi”, spiega CdB, riferendosi niente di meno che ai figli.

Ma l’Ingegnere può consolarsi con le nubi che si addensano a Cologno Monzese, dove l’operazione Mediaset For Europe (MFE) rischia di sfumare. Vivendi è a capo di circa il 29% del gruppo, sebbene la quota eccedente il 10% sia stata “congelata” nella Simor Fiduciaria su disposizione dell’Autorità Garante per le Comunicazioni per la contestuale detenzione dei francesi di una quota di rilievo in TIM, altro colosso delle comunicazioni sul mercato italiano. Fa capo alla famiglia Bolloré e ha fatto ricorso nei tribunali di Madrid, Milano e Amsterdam per ottenere la sospensione cautelare delle ultime delibere assembleari con cui viene avallato il trasferimento della sede legale in Olanda di Mediaset e delle controllate Mediaset Espana e la tedesca ProSiebenSat.1.

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Sfuma l’affare olandese per Mediaset?

Ma questa settimana, Vivendi ha ritirato l’impugnazione dinnanzi al tribunale olandese (per il momento), mentre può ritenersi soddisfatta della decisione della Corte di Madrid di sospendere cautelativamente la fusione di Mediaset Espana con il resto del gruppo e il successivo trasferimento della sede legale in Olanda, in attesa di sentenziare sul punto. Qual è il problema? Fininvest, che insieme alla famiglia Berlusconi e alle azioni proprie detiene il 44% di Mediaset, vuole approfittare della legislazione olandese per mantenere con certezza il controllo della società contestualmente ai propositi di creazione di un gruppo dei media europeo, pur senza il bisogno di arrivare al 50%+1 delle azioni, grazie alla facoltà consentita dalle norme agli azionisti di differenziare il numero dei voti in assemblea sulla base dell’anzianità del possesso.

La famiglia Berlusconi teme di perdere il controllo di Mediaset e per questo ha varato il piano MFE, che inizia a traballare. Affinché vada in porto, le norme olandesi richiedono che venga attuato entro 6 mesi dalla delibera, cioè entro marzo 2020.

Tuttavia, se i giudici spagnoli e/o quelli italiani dovessero protrarre l’emanazione delle sentenze oltre tale termine, il piano decadrebbe. Inoltre, una delle condizioni poste da Mediaset per l’attuazione era che gli esborsi per pagare il diritto di recesso agli azionisti contrari non superassero i 180 milioni. Ma dalla Spagna il conto è risultato essere di 255 milioni, in Italia di appena 1,3 milioni. Vero è che nei giorni scorsi Mediaset aveva stretto un accordo con Credit Suisse per rilevare le azioni in eccesso rispetto al tetto preventivato, ma trattasi della classica toppa per il buco.

E se i giornali della famiglia De Benedetti vendono meno, le TV dei Berlusconi fanno minori ascolti e il fallimento di Mediaset Premium, pur godendo per un triennio dei diritti per la Champions League, dimostra che un’era di successi è volta al termine. Per non parlare del Milan, simbolo del berlusconismo, venduto a un fantomatico magnate cinese nel 2017 e ridottosi a rincorrere squadre di metà classifica in Serie A e sotto una governance raccapricciante. In tutto questo, sembra che così come i successi degli uni alimentano quelli degli altri, venuti meno, entrambe le famiglie accusino i problemi e siano finiti per appannare l’immagine vincente di un tempo, rimasta solo un lontano ricordo che le nuove generazioni al comando non hanno il tempo di contemplare, alle prese con patemi ben attuali.

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