A luglio ci sarà il primo rialzo dei tassi BCE dopo undici anni. Pur essendo un evento formalmente ordinario, di fatto è già diventato storico per la breve vita dell’euro. L’ultima volta che Francoforte ha reso più costoso il denaro c’era come governatore il francese Jean-Claude Trichet. L’Italia era governata (per pochi mesi ancora) da Silvio Berlusconi, in Francia presidente era Nicolas Sarkozy e negli USA Barack Obama era al primo mandato. Un’altra era, non c’è dubbio.

Quella manovra, tuttavia, per molti fu concausa della crisi dello spread. La BCE pensò che fosse arrivata l’ora di alzare i tassi per combattere l’inflazione, ma scatenò vendite massicce dei titoli di stato nel Sud Europa. I mercati temettero, infatti, che paesi come Italia, Spagna, Portogallo e Grecia non fossero nelle condizioni di assorbire la stretta monetaria, a causa dei debiti alti e delle pessime condizioni economiche in cui versavano.

Il dilemma di Lagarde

Alla fine del 2011, il neogovernatore Mario Draghi tagliava nuovamente i tassi BCE. Non fu un anno felice per la credibilità dell’euro. Come sarebbero andati i fatti, lo sappiamo. I timori circa una stretta “prematura” esisterebbero anche adesso, sebbene appaia ridicolo dinnanzi a un’inflazione salita all’8,6% a giugno. Il fatto è che questa fase si mostra abbastanza complessa. Il rialzo dei tassi BCE sta avvenendo proprio mentre l’economia nell’Eurozona rallenta e probabilmente cadrà in recessione nei prossimi mesi.

Obiettivamente, nessuno vorrebbe essere al posto di Christine Lagarde, la quale rischia di sbagliare in ogni caso: se alza i tassi, può accelerare l’arrivo della recessione economica; se non li alza, farà esplodere l’inflazione nell’area. In realtà, questa assume i connotati di una crisi autoinflitta: i tassi BCE andavano alzati prima. Oramai si rischia l’effetto “too little, too late”.

Ma paradossale che possa sembrare, più il rischio di recessione sale, maggiore la fretta di Francoforte nell’aumentare il costo del denaro.

Corsa al rialzo tassi BCE

Fino all’altro ieri, l’istituto acquistava asset per 20 miliardi di euro netti al mese. Al board del 21 luglio, si ritroverà ad alzare i tassi dall’attuale -0,50% imposto sui depositi delle banche. Le condizioni monetarie sono e restano ultra-espansive. Di fatto, come se l’inflazione fosse ai minimi termini e l’economia bisognosa di assistenza. Ma non è affatto questo il quadro. Pensate cosa significherebbe per la BCE presentarsi all’appuntamento con la recessione senza più alcuno strumento da utilizzare per sostenere la ripresa economica. Non potrebbe tagliare i tassi, dato che già stanno sottozero. Non potrebbe iniettare liquidità tramite un nuovo ciclo di “quantitative easing”, essendo appena cessato.

La BCE di oggi ricorda la Federal Reserve di Janet Yellen e Jerome Powell nel 2017-2019. La banca centrale americana allora sembrò alzare i tassi non tanto per piegare l’inflazione, quanto per evitare di rimanere disarmata alla fine del ciclo economico espansivo. L’Eurozona, tuttavia, sta messa molto peggio. Ha tassi reali estremamente negativi. La BCE rischia di perdere di credibilità se arrivasse la recessione e non potesse fare nulla. Da fattore di stabilità, si trasformerebbe in un amplificatore della crisi. I governi sarebbero privati anche della leva fiscale, perché senza un miglioramento delle condizioni monetarie diversi di loro non avrebbero grossi margini per intervenire in deficit.

E la storia del Giappone ci insegna in questi decenni che se il mercato si convince che i tassi non possano più scendere, la politica monetaria diventa inefficace. Prima che i dati sul PIL dissuadano dall’adottare la stretta, Lagarde e il suo board correranno ad alzare i tassi BCE fino a portarli nettamente sopra lo zero.

L’alternativa sarebbe come subire una rapina armata alzando le mani senza potersi difendere.

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