Lo immaginereste che tre banche e una compagnia assicurativa italiane posseggano in tutto 2 miliardi e 320 milioni di euro da poter incassare e che ad oggi tengano sotto il materasso? E’ il conto che deriva dalle quote possedute nella Banca d’Italia e in eccesso rispetto alla percentuale massima consentita del 3%. Facciamo un passo indietro al 2013, anno in cui l’allora governo Letta studia un decreto assai contestato politicamente, teso a rivalutare le quote azionarie dell’istituto. Il capitale viene innalzato dai 156.000 euro complessivi fissati negli anni Trenta a 7,5 miliardi di euro, suddiviso in 300.000 quote da 25.000 euro ciascuna.

Si fissò anche un tetto di 9.000 quote (3%) detenibili da ciascun socio, sebbene non furono indicati tempi perentori entro cui vendere quelle eccedenti.

Ecco perché la rivalutazione di Bankitalia è un regalo alle banche

Semmai, fu previsto che i dividendi distribuiti ammontassero a un massimo del 6% rispetto al capitale, cioè non potessero superare nel totale i 450 milioni di euro (6% su 7,5 miliardi) e che, trascorsi tre anni dall’entrata in vigore del decreto, le quote eccedenti il 3% non assegnassero al titolare né il diritto di voto, né quello a percepire il dividendo. In pratica, sopra il 3% è come se le quote fossero “congelate”. Il mese scorso, Banca Carige ha venduto 1.000 quote, incassando così 25 milioni di euro, ma rimanendo ancora sopra il tetto delle 9.000, figurando quarto socio nella lista aggiornata al 13 dicembre e pubblicata da Bankitalia, con 11.093 quote. Al primo posto si trova Intesa-Sanpaolo con 68.817, al secondo Unicredit con 36.749 e al terzo Generali con 12.436.

Nel complesso, questi quattro soci detengono da soli il 43% dell’intero capitale di Palazzo Koch, mentre i restanti 117 si spartiscono il 57%. Se dovessero vendere le quote eccedenti il 3%, Intesa incasserebbe circa 1,5 miliardi di euro, Unicredit quasi 700 milioni, Generali circa 86 milioni e Carige altri 52,3 milioni. E non è nemmeno necessario che trovino acquirenti sul mercato, dato che la legge consente loro di cedere le quote alla stessa Bankitalia, che le deterrebbe per un periodo non superiore ai 18 mesi come capitale proprio per dopo rivenderle.

Questo ha fatto Carige a ottobre, quando si è liberata di 1.000 quote per fare cassa e aggiustare i bilanci.

La convenienza di tenersi le quote Bankitalia

Il ricavato della vendita è soggetto all’imposta sulle plusvalenze, queste ultime praticamente coincidenti con l’intero importo incassato, tenuto conto del valore di carico delle quote iniziali, sebbene nel tempo alcune banche abbiano provveduto ad aggiornare tali valori a bilancio per accrescere il patrimonio contabile e mostrarsi finanziariamente più solidi, come nel caso di Intesa e Unicredit.

Rivalutazione quote Bankitalia: i soci costretti a vendere e quanto incasseranno

Perché i soci bancari e finanziari non hanno ancora fatto cassa, pur potendo e avendo perduto i diritti di voto e relativi al dividendo per le quote eccedenti? Il fatto è che la rivalutazione ha già sortito l’effetto sperato e perseguito dal governo, cioè di migliorare i bilanci con un escamotage contabile. E se è vero che sopra le 9.000 quote non si becchi un quattrino, resta indubbio come la detenzione delle eventuali eccedenze segnali agli investitori una certa solidità patrimoniale, trattandosi di assets non soggetti a volatilità di mercato, di risorse parcheggiate e disponibili all’occorrenza. Inoltre, tenendo le quote per sé s’impedisce a un concorrente domestico di attingere ai relativi dividendi.

Nel 2019, Bankitalia ha distribuito 340 milioni di dividendi, sotto i 450 milioni del limite massimo fissato per legge, in linea con gli anni precedenti. Se vogliamo, la detenzione di quote eccedenti fa bene all’istituto, perché la mancata assegnazione dei dividendi va a rafforzare le riserve ordinarie. Con questi numeri, ad esempio, il monte-dividendi effettivamente distribuito si riduce di quasi un terzo, tenuto conto che i quattro soci con quote eccedenti posseggano il 43% del capitale, a fronte del 12% di cedole loro spettanti.

La differenza accresce il patrimonio e potenzialmente pone le basi per una seconda futura rivalutazione delle quote stesse, il cui rendimento attuale generato è del 4,5% lordo all’anno, oltre il triplo di quanto offerto oggi da un BTp a 10 anni.

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