“Territorialità” e “mutualità” sono i due concetti-chiave, attraverso i quali la Lega di Matteo Salvini punta a smontare la riforma delle banche di credito cooperativo (Bcc) del 2016, quella voluta dal governo Renzi. Un emendamento al decreto fiscale e a firma di Alberto Bagnai, economista del Carroccio, sconvolge quella disciplina in fase di attuazione proprio in questi mesi e che prevede sostanzialmente quanto segue: le Bcc dovranno aderire a una delle tre holding (Iccrea, Cassa Centrale Banca e Raiffaisen) o trasformarsi in una spa.

La seconda opzione è limitata ai soli istituti con riserve per almeno 200 milioni di euro e dietro il pagamento di un’imposta del 20% su di esse. Di fatto, solo Cambiano ha esercitato l’opzione di way-out. Con la rivisitazione normativa che avanza sotto il governo giallo-verde, l’obbligo di adesione o di trasformazione in spa viene cancellato, tranne che per alcuni casi specifici, ovvero: nel caso di patrimonio netto inferiore a 100 milioni di euro, di Common equity tier ratio inferiore all’8%, di Net Stable Funding Ratio sotto il 100%, di Liquidity Coverage Ratio a meno del 100% e di Npl superiori al 15% del totale dei crediti. Sapete qual è il bello? Nessuna banca di credito cooperativo oggi rientrerebbe in questa casistica, per cui nessuna delle 280 Bcc sarebbe costretta a cambiare pelle o a fare parte di una delle tre suddette holding.

Banche, garanzia pubblica e riforma del credito cooperativo: ecco i rischi

C’è un aspetto delicato nella vicenda, che rischia di creare caos. Già a settembre, il governo aveva mutato la riforma delle Bcc, allungando da 90 a 180 giorni il tempo massimo entro cui esercitare l’opzione e al contempo stabilendo che almeno il 60% del capitale delle holding dovesse essere in mano alle aderenti. In queste settimane, decine di Bcc hanno votato e continuano a votare nelle rispettive assemblee per esercitare l’opzione, visto che i tempi stringono, ma adesso che l’obbligo starebbe per venire meno, molte potrebbero ripensarci, con la conseguenza che le potenziali capogruppo non hanno più idea di quanti istituti effettivamente aderiranno.

Le Bcc incidono per il 10% dei crediti erogati in Italia e hanno dimensioni quasi sempre minuscole, ragione per cui nel 2016 il governo Renzi aveva pensato bene di costringerle ad aggregarsi. Tuttavia, esistono diverse critiche a quella riforma che abbiamo avanzato già all’atto della sua presentazione. Quando si è detto che la nuova normativa avrebbe rescisso la commistione tra politica locale e banche cooperative, si è detto una mezza verità. Il rischio sarebbe, infatti, di sganciare questi istituti dall’influenza di sindaci e governatori e di sottoporli a quella dei partiti nazionali. Inoltre, se è verissimo che “piccolo è bello” nel panorama bancario appaia un’espressione alquanto inappropriata, bisogna considerare anche i rischi derivanti da un aumento delle dimensioni delle attuali Bcc. Quando gli attivi raggiungono i 30 miliardi di euro, infatti, la vigilanza spetta alla BCE. Siamo sicuri che vogliamo sottoporre queste piccole banche ai controlli più stringenti di Francoforte, con la conseguenza che si scoprirebbero troppi altarini?

Perché Salvini vuole smontare la riforma Bcc

Nel nome della trasparenza, non vi sarebbero problemi ad affermare che sarebbe giusto così. E, però, le regole sono belle e giuste quando si applicano a tutti. Non è il caso della vigilanza bancaria accentrata. Prendete la Germania, dove operano oltre 400 Sparkassen, le potenti casse di risparmio, che incidono per il 15% del credito nazionale erogato. Queste realtà sfuggono ai controlli della BCE, perché il governo tedesco ha fatto di tutto affinché ciò non accadesse. La soglia dei 30 miliardi di attivi, sotto la quale i controlli restano nazionali, pensate sia stata introdotta a casaccio? Di fatto, solo la Sparkasse di Amburgo è stata sottoposta ai controlli di Francoforte.

Tutte le altre possono dormire sonni tranquilli e continuare ad operare con bilanci a dir poco opachi. Uno studio realizzato da Bruegel, il think-tank di Bruxelles, ha scoperto che la commistione tra queste realtà e la politica locale in Germania è fortissima e non ha alcun paragone nemmeno con la situazione imperante in Italia sotto la Prima Repubblica.

Ad esempio, il 35% dei consiglieri di amministrazione delle Sparkassen in Baviera è un politico e oltre i quattro quinti dei presidenti dei board è un esponente delle amministrazioni locali. In pratica, parliamo di istituti che erogano credito alle imprese e che a loro volta vengono amministrati dalla politica, senza che formalmente i loro debiti vengano consolidati con quelli degli enti locali e, quindi, dello stato tedesco. Parliamo di esposizioni per circa il 50% del pil nazionale, per cui se dovessimo essere pignoli, come spesso lo sono i tedeschi con i conti degli altri, oggi la Germania avrebbe un debito pubblico superiore al 110% del pil e non già poco superiore al 60%. Le Sparkassen non sono realtà da niente, ma anni fa si è calcolato che vantassero attivi per circa 1.000 miliardi di euro, quasi il 4% di quelli dell’intero continente. E’ corretto che questi numeri siano preservati dal monitoraggio della BCE, quando le concorrenti all’estero ne sono sottoposte?

E sin dal debutto della monca unione bancaria nel 2014 si è rilevato come la Germania continui a fare di tutto per evitare che i bilanci di queste casse di risparmio vengano letti da funzionari non tedeschi. Per caso nascondono qualcosa? Beh, se pensate che nei fatti siano rette dai politici locali, i quali spesso sfruttano le erogazioni di credito per fare carriera e diventare magari borgomastri, presidenti di provincia e governatori, arrivando a mettersi in mostra sul piano nazionale, si capisce che parliamo di un sistema in sé malato, tant’è che con lo scoppio della crisi dei mutui subprime negli USA, Berlino ha dovuto stanziare 67 miliardi per salvare le Landesbanken, le banche regionali tramite le quali le Sparkassen operano fuori dagli stretti confini locali e si affacciano sui mercati internazionali.

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Il modello tedesco a cui aspira Salvini

Nella riforma o controriforma di Salvini, l’obbligo di adesione o trasformazione verrebbe sostituito con quello di costituire sistemi di “tutela istituzionale”, anche se probabilmente con riferimento alle sole Bcc del Trentino-Alto-Adige, affinché possano provvedere a prendere spunto dal modello tedesco-austriaco delle Spar- e Volkskassen. Dietro a questo atteggiamento del leader leghista vi sono diverse letture possibili e tra di loro nemmeno alternative. Anzitutto, non dimentichiamo che la Lega affonda le sue radici nel ricco nord, dove si concentra gran parte delle Bcc, che nei decenni hanno prestato denari alle piccole e medie imprese locali, le quali a loro volta rappresentano il cuore dell’elettorato di Umberto Bossi prima e di Salvini adesso. E sganciare queste piccole banche dai rispettivi territori comporta il rischio di privare le Pmi di quel credito, che per loro è e resta ossigeno, specie in tempi di aggregazioni bancarie e di perdita di collegamento con le realtà produttive minori, ingiustamente spesso tagliate fuori dal mercato del credito per le scarse garanzie dimostrabili.

Ma ci sarebbe anche il tentativo della Lega, così come anche dell’M5S, di strizzare l’occhio a istituti, che nel tempo avevano stretto rapporti solidi con il PD nelle regioni “rosse” e con la SVP nell’Alto Adige, trattandosi dei partiti che tradizionalmente governano quei territori. Ora che il PD è in disfacimento persino nelle roccheforti storiche come Emilia-Romagna e Toscana, perché non approfittarne per sostituirsene? E la SVP è costretta per la prima volta a governare il Trentino-Alto-Adige alleandosi con la Lega e non più con il PD dopo le elezioni amministrative di poche settimane fa. Non vi sarebbe tempistica migliore di questa per accontentare i rappresentanti della minoranza di lingua tedesca, offrendo loro la prospettiva di un sistema bancario germanico e ancorato al territorio.

Infine, evitare l’ingrandimento delle Bcc si traduce nella permanenza della vigilanza in capo alla Banca d’Italia. La BCE non potrebbe iniziare a mettere becco nei loro bilanci, così come non può farlo in quelli delle Sparkassen. E Francoforte pretende requisiti più stringenti di quelli generalmente imposti dalle autorità nazionali, per cui la “controriforma” di Salvini porterebbe alla riduzione del rischio di un “credit crunch” per le realtà cooperative, a tutto discapito delle Pmi. Per contro, si rischia di tenere in vita istituti gravati da inefficienze insostenibili e spesso frutto di una gestione “allegra” del credito, come emerso con le due venete salvate dallo stato due anni fa, nonché di dovere soccorrerle in futuro con nuovi fondi statali. Sta di certo che Salvini vuole ridisegnare il sistema finanziario italiano, smantellando quello ereditato dalla Seconda Repubblica, consapevole che dai suoi gangli può passare il successo del nuovo corso.

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