A suo modo, il 2020 sarà ricordato come una data storica per l’Australia, dato che la sua economia è caduta in recessione per la prima volta dal 1991. Dopo il -0,3% registrato nel primo trimestre, nel secondo il pil è crollato del 7%, molto meno dell’estero, ma pur sempre il più grande calo dall’inizio delle rilevazioni storiche nel 1959. A provocare la crisi è stata l’emergenza Covid, sebbene sul dato del primo trimestre avrebbero influito anche i vasti incendi boschivi dell’estate scorsa, quando nell’emisfero nord stavamo entrando nella stagione invernale.

Pensate che la terra dei canguri non era caduta in recessione nemmeno dopo la crisi del 2008 e i quasi 30 anni di crescita ininterrotta (pil medio a +3,2% dal 1991) segnano un record mondiale, superando quello precedentemente detenuto dall’Olanda. L’ultima volta che il prodotto interno lordo australiano era variato con il segno meno c’era ancora l’Unione Sovietica, alla Casa Bianca alloggiava il presidente George Bush senior e la Germania si era appena riunificata. Un altro mondo, un’altra era.

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La vicinanza geografica alla Cina ha sostenuto la crescita australiana negli ultimi decenni. Canberra esporta verso Pechino oltre un terzo dei suoi prodotti venduti all’estero, perlopiù materie prime, per un ammontare complessivo tra gli 85 e i 90 miliardi di dollari all’anno, pari ad oltre il 6% del pil.

Aussie a +30% da marzo

Proprio per questa stretta connessione tra le due economie, non appena i cinesi imposero il “lockdown” a Wuhan a gennaio, l’economia australiana ne ha risentito negativamente. Adesso, tra i due paesi è alta tensione sul fronte commerciale, dopo che il governo di Scott Morrison ha invocato un’inchiesta internazionale per accertare le origini della pandemia. La reazione cinese è stata dura: dazi sull’orzo, sospensione delle importazioni di manzo e invito agli studenti di riconsiderare l’idea di andare a studiare in Australia.

E da poco Pechino ha avviato un’indagine per accertare eventuali azioni di dumping dell’Australia sul vino esportato.

Ripicche, che non hanno impedito al dollaro australiano, in gergo “aussie”, di guadagnare oltre il 30% contro il dollaro americano dai minimi di marzo. Nel momento di massima tensione sui mercati internazionali, un aussie arrivò a comprare appena 58 centesimi di dollaro USA, adesso più di 73 centesimi. Il cambio australiano funge un po’ da proxy per l’economia globale, riflettendo le relazioni commerciali con la Cina, a sua volta il motore manifatturiero del pianeta. Il suo rafforzamento ci dice che il mercato sia positivo non solo sulla ripresa veloce dell’Australia, quanto anche di quella mondiale.

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Anche perché l’aussie si è portato ai massimi dall’autunno del 2018, complice la debolezza del dollaro americano. Dunque, non si è limitato a superare l’implosione accusata nei primi mesi dell’anno. Probabile, poi, che sull’apprezzamento abbia inciso il livello dei tassi superiore a quello del resto del mondo avanzato. La Reserve Bank ha fissato il costo del denaro allo 0,25% da mesi, mentre tutti i rendimenti sovrani si trovano in area positiva, con il decennale allo 0,92% e il trentennale all’1,82%. E parliamo di debito con rating tripla “A”.

In conclusione, la recessione dell’Australia segna un momento storico per l’economia domestica dopo quasi un trentennio di crescita incessante. Allo stesso tempo, da qui giungono segnali confortanti per il resto del mondo, malgrado le tensioni con Pechino. Per gli investitori, alla fine andrà tutto bene. E speriamo abbiano ragione.

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