Nel 2021 l’INPS ha speso 312 miliardi di euro per le pensioni, il 17,6% del PIL. I beneficiari sono stati 15,5 milioni di persone, di cui 7,4 milioni uomini e 8,1 milioni donne. Per l’anno prossimo, se l’inflazione dell’intero 2022 si attestasse all’8% di giugno, la spesa crescerebbe di 24 miliardi. Queste sono le stime che arrivano dallo stesso ente di previdenza e che lanciano l’allarme sulla sostenibilità del sistema. Parliamo dell’aumento delle pensioni, che scatterà dall’1 gennaio 2023. Come sappiamo, gli assegni sono indicizzati all’inflazione FOI ex tabacchi dell’ISTAT.

Nel dettaglio, il potere d’acquisto è conservato totalmente per gli assegni fino a 4 volte il trattamento minimo (524,35 euro nel 2022), del 90% per gli assegni tra 4 e 5 volte e del 75% per gli assegni sopra le cinque volte il minimo.

L’aumento delle pensioni non sarebbe un problema se fosse bilanciato da un pari aumento delle entrate. E così dovrebbe avvenire generalmente. L’inflazione stimola la crescita dei redditi, sui quali l’INPS preleva i contributi. Ad esempio, se un lavoratore percepisce uno stipendio lordo mensile di 3.000 euro e questi aumentasse prontamente allo stesso ritmo dell’inflazione – per ipotesi, dell’8% – la retribuzione salirebbe a 3.240 euro. L’INPS incasserebbe contributi complessivi per quasi 1.060 euro, anziché i 981 euro dell’anno precedente.

Contributi INPS al palo, maxi aumento pensioni

Ma gli stipendi degli italiani stanno rimanendo fermi. Secondo l’ISTAT, nel primo trimestre sarebbero cresciuti di appena lo 0,8%. Poiché non s’intravede una corsa nei mesi successivi, questo significa che la base imponibile su cui prelevare i contributi INPS cresce di poco, mentre la spesa che l’ente dovrà sostenere l’anno prossimo per l’aumento delle pensioni si sta impennando.

Alla lunga, un trend del genere non si regge. Già la spesa per le pensioni è altissima in Italia, la maggiore insieme alla Grecia. Certo, risulta d’altronde anche difficile immaginare che gli stipendi restino fermi a fronte di un carovita sempre più esoso.

Nel governo si starebbe ipotizzando di rivedere i criteri di indicizzazione delle pensioni più alte, così da ridurre l’aggravio. Il punto è che gli assegni più alti incidono marginalmente sui conti dell’INPS. Pensate, invece, che il 32% dei pensionati ha ricevuto nel 2021 assegni fino a 12.000 euro all’anno.

Rivedere i criteri di indicizzazione manderebbe su tutte le furie i pensionati che hanno versato i contributi con cui si sono finanziati gli assegni alti. Oltretutto, si tratterebbe in molti casi di premiare coloro che hanno versato pochi o nessun contributo, finendo per essere finanziati dal resto della platea dei lavoratori. Eppure i soldi servono per mitigare gli effetti della legge Fornero. Dal 2023 non ci sarà più quota 102. Il governo deve trovare il modo di offrire un po’ più di flessibilità senza gravare troppo sui conti pubblici. Ma con una stangata attesa nell’ordine delle decine di miliardi di euro per effetto dell’aumento delle pensioni, i margini di manovra appaiono ridottissimi, se non inesistenti.

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