Proseguono le trattative tra il Tesoro e i vertici di Unicredit sulla vendita di Monte Paschi di Siena (MPS). Il closing dell’operazione è atteso dopo i ballottaggi, sebbene l’esito positivo non sia ancora dato per scontato. L’affare Rocca Salimbeni s’intreccia irrimediabilmente con la politica. Il primo turno delle elezioni amministrative ha coinciso con le suppletive di Siena, dove è stato eletto deputato Enrico Letta al posto di Pier Carlo Padoan, ex ministro dell’Economia e anch’egli del PD, dimessosi nei mesi scorsi per ricoprire la carica di presidente di Unicredit.

D’altra parte, MPS è stata da sempre percepita come una banca vicina alla sinistra, dato che la Fondazione che la controllava era composta da un board nominato da Comune, provincia e Regione Toscana, tutti in mano al PD fino a poco tempo fa. Non è difficile capire perché il Tesoro e Piazza Gae Aulenti stia un po’ allungando i tempi del negoziato, al fine di scavalcare la data dei ballottaggi di ieri e oggi. In gioco c’è l’aumento di capitale di MPS, stimato per mesi a circa 3 miliardi di euro e che negli ultimi giorni alcuni rumors arrivano a ipotizzare possa spingersi fino a 5-7 miliardi.

Aumento MPS, i numeri

Il problema riguarda le cause legali che pendono sulla testa di MPS, ergo di chi si comprerà quel 64% in mano al Tesoro. Il “petitum”, cioè le richieste, sommano a 6,4 miliardi. Considerate che la banca senese in borsa vale poco più di 1 miliardo. A questi si aggiungono i crediti deteriorati. AMCO, un’altra controllata del Tesoro, dovrebbe comprarne per un controvalore nominale di 8 miliardi a prezzi non troppo inferiori a quelli iscritti a bilancio. Tuttavia, MPS accuserebbe pur sempre quasi 1 miliardo di perdite per tale via.

Ora, è molto difficile che le richieste per i 6,4 miliardi di cui sopra passino in toto in tribunale.

Resta il fatto che Unicredit non vuole correre rischi ed esporsi ai timori del mercato. Il suo amministratore delegato Andrea Orcel ha chiarito di pretendere che l’operazione sia neutrale ai fini del capitale. Non essendoci alternative in vista, il Tesoro deve suo malgrado accettare. Il punto è che una maxi-ricapitalizzazione di MPS per 7 miliardi imporrebbe allo stato di partecipare pro-quota con esborsi per altri 4,5 miliardi, i quali si sommerebbero ai 5,9 miliardi del 2017.

Il costo finanziario sembra elevatissimo e anche quello politico lo sarebbe. Ma l’elezione di Letta agevola i piani, perché è evidente la sconfitta a Siena della linea leghista critica alla s-vendita di MPS a Unicredit. Serve semplicemente togliere dal dibattito sulle amministrative la bomba sulle nuove perdite a carico dei contribuenti. Finita la giornata di oggi, però, il dossier subirà un’accelerazione. Con buona pace dei contribuenti, alle suppletive di due domeniche fa poche decine di migliaia di elettori hanno deciso per 60 milioni di abitanti di emettere l’ennesimo assegno in bianco per salvare la banca più antica del mondo.

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