Cosa succede quando affidi una banca allo stato italiano? Che non si regge sul mercato e deve continuamente chiedere soldi ai contribuenti per non fallire. E’ la storia al limite della nausea di Monte Paschi di Siena (MPS), l’istituto di credito più antico al mondo ancora oggi in attività e che prima della nazionalizzazione del 2017 era stata devastata da decenni di gestione politicizzata attraverso la Fondazione. In Italia, dopo le finte privatizzazioni di inizio anni Novanta, la politica aveva trovato il modo di continuare a tenere le mani nella marmellata chiamandolo “mercato”.

E così è stato con Palazzo Sansedoni al 54% del capitale fino a pochi anni fa, controllato da Regione Toscana, Provincia e Comune di Siena e Curia locale.

Giovedì scorso, l’assemblea straordinaria ha deliberato il settimo aumento di capitale per MPS in quattordici anni. Ma parlare di vera “assemblea” fa sorridere. Si è presentato a votare appena il 65,22% del capitale, cioè meno dell’1% al netto della quota del 64,23% del Tesoro. I soci privati hanno semplicemente disertato l’evento tra la rassegnazione e il mancato interesse a rinnovare fiducia a una banca già fallita da anni.

I numeri del disastro di Siena

L’aumento di capitale MPS sarà di 2,5 miliardi di euro, di cui 1,6 miliardi a carico dello stato. Sul mercato nessuno vuole prendersi una banca che nel decennio 2012-2021 ha maturato perdite per 18,7 miliardi e chiuso i bilanci in attivo solamente per tre volte. Parrebbe interessata Anima, ma di certo non ha intenzione di diventare socio di riferimento per Rocca Salimbeni.

Fatto sta che lo stato è entrato nel capitale di MPS nel 2017 con una ricapitalizzazione di 3,85 miliardi e mettendo altri 1,5 miliardi per rimborsare i titolari delle obbligazioni subordinate. Se oggi decidesse di vendere la banca senese, ai prezzi di borsa ricaverebbe intorno ai 200 milioni. Praticamente, noi contribuenti abbiamo buttato nell’immondizia 5,2 miliardi.

Ne butteremo altri 1,6 miliardi con l’aumento di capitale MPS, come detto. E non è finita. Una legge consentirà alla banca di implementare l’esodo volontario a favore di 3.500 dipendenti, concedendo loro fino a sette anni di scivolo. Cosa significa? Prepensionamenti a carico dei soliti contribuenti. Costo stimato: 270 milioni all’anno.

E aggiungiamo cessione dei crediti deteriorati per 7,5 miliardi ad Amco nel 2020, cioè a una società controllata dallo stesso Tesoro. Solamente nel 2021, essa ha accusato perdite su questo portafoglio di NPL per 529 milioni. Denari dei contribuenti, ovviamente. La situazione finanziaria è così critica, che l’anno scorso Unicredit si ritirò dall’accordo per rilevare MPS “gratis” dopo essere entrata nel “data room” e averne visionato i conti nei dettagli.

Aumento capitale MPS ennesima operazione inutile

L’aumento di capitale MPS è qualcosa che con il mercato non c’entra davvero nulla. Lo hanno dimostrato i soci privati, facendo marameo a Luigi Lovaglio e il suo board. La banca è un pozzo senza fondo. Più soldi butti, meno ne vedi. Non c’è alcuna logica strategica dietro questo dissanguamento ormai costante per il bilancio pubblico. Bene che vada, MPS sarà ridotta sempre più a una banca di livello regionale, fatta oggetto di “spezzatino” e con il bisogno di integrarsi con qualche istituto italiano o straniero per reggersi in piedi.

Patetico il governo uscente, che temendo che il successore non dia seguito all’ennesima inutile ricapitalizzazione parla di necessità di salvare MPS, che è nelle mani dello stato da oltre cinque anni senza che se ne notino i benefici. La politica ha distrutto MPS e la politica sta devastando i conti pubblici cercando di “salvarla”. Ma non esiste alcun salvatore possibile che sia stato prima il vandalo della situazione. Gli italiani dovrebbero pretendere maggiore rispetto dell’uso dei loro quattrini guadagnati con il sudore della fronte.

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