E’ in corso una rivoluzione silenziosa in Arabia Saudita, anche se i progressi vengono compiuti a ritmi piuttosto lenti. Eppure, da quando nell’aprile dello scorso anno, il Principe Mohammed bin Salman, figlio del sovrano e numero due del regno, ha svelato al mondo il suo Saudi Vision 2030, teso a sganciare l’economia nazionale dalla dipendenza verso il petrolio, di novità ne sono state introdotte e altre rilevanti sarebbero in arrivo. Il giovane membro della famiglia reale di Riad punta a porre le basi sin da adesso a un sistema economico sano per quando il petrolio non ci sarà più o diverrà una materia prima irrilevante nel mondo.

Per centrare l’obiettivo, serve potenziare la bassa occupazione locale, specie tra le donne, il cui tasso di disoccupazione è pari al 33%, 5 volte quello registrato tra gli uomini. E le donne al lavoro rappresentano poco più di un quinto di quelle in età lavorative, un terzo degli occupati complessivi tra i sauditi. (Leggi anche: La rivoluzione saudita passa per l’IPO di Aramco, ma recessione in vista)

Il piano del Principe Mohammed punta a centrare l’obiettivo di un tasso di occupazione femminile del 30% entro il 2030. Potrebbe apparire poco ambizioso, ma non lo è affatto in un regno dalla cultura wahabita, un’interpretazione ultra-conservatrice dell’islam. Anche perché, persino gli uomini trovano poco conveniente lavorare, godendo di benefici assistenziali molto generosi, frutto dei proventi del petrolio.

Il Saudi Vision 2030 vorrebbe elevare a 8 milioni il numero degli occupati, che oggigiorno non arriva nemmeno a 6 milioni. Cosa ancora più importante, mira a spostare occupati dal settore pubblico a quello privato. Si consideri, che oggi lavorano alle dipendenze dello stato saudita 4,2 milioni di persone contro gli 1,6 milioni di cittadini nazionali occupati nel settore privato. L’obiettivo sarebbe di dimagrire i primi a 3,4 milioni e di aumentare i secondi a 4,1 milioni.

Più diritti alle donne saudite

Affinché tali numeri possano non rimanere lettera morta, serve che anche le donne lavorino. Certo, in un paese dove ci si sposa presto e il gentil sesso è invitato semplicemente ad occuparsi della famiglia, questo piano appare una sfida contro i costumi del regno, ma che il Principe Mohammed sia intenzionato ad andare avanti lo dimostra anche un suo ordine emanato quest’estate a tutti i dipendenti pubblici, con il quale si chiede loro di accettare di erogare servizi a utenti donne, anche se non accompagnate da un uomo, qualora il compito da svolgere non fosse espressamente in contrasto con un divieto in vigore.

Dalla metà di luglio non è giunta alcuna risposta dai pubblici uffici, ma Riad ha lanciato un messaggio chiaro al suo stesso apparato: le donne possono dovere circolare liberamente, pur nei limiti stringenti ancora esistenti, al pari degli uomini. Certo, non potranno chiedere il rilascio di un passaporto senza la presenza di un familiare uomo, così come sicuramente continueranno a dovere chiedere il permesso al padre o altro familiare uomo per sposarsi, ma i primi passi sono stati compiuti verso lo sdoganamento di un minimo di parità nei diritti tra i due sessi.

Il problema, dicevamo, continua ad essere più culturale che formale. Da alcuni sondaggi realizzato sul piano del principe, si scopre che in tanti cittadini sauditi avrebbero remore a lavorare, specie per il settore privato, vedendo di cattivo occhio settori cruciali per la crescita economica, come il turismo, ma anche la sanità. La ragione: meglio lavorare nel pubblico, che paga bene, è più sicuro e segnala un impegno patriottico, di cui possono andare fiere le famiglie. (Leggi anche: Rivoluzione saudita: vivere senza petrolio dal 2020)

Le donne saudite non possono guidare? C’è Uber

Qualcosa si sta muovendo, grazie anche a diverse iniziative del governo.

Anzitutto, nel 2011 è stato vietato ai negozi di abbigliamento intimo di assumere uomini, concedendo il monopolio del lavoro in questo campo alle sole donne, la cui presenza è aumentata a ben 200.000 unità, non senza resistenze e polemiche da parte degli stessi datori. E da qualche tempo è partito un progetto-pilota, che riguarda attualmente 400 donne, ma che verrà esteso a 150.000 di loro, che punta ad agevolare il loro lavoro con l’offerta di voucher Uber, in modo che superino l’ostacolo di non potere guidare.

L’uso della macchina non è solo un reclamo formale di un diritto, bensì un mezzo concreto per lavorare. Non solo molte donne saudite trovano difficile raggiungere il posto di lavoro, ma anche svolgerlo nel corso della giornata. Si pensi al campo della consulenza, che richiede di andare a trovare i clienti al domicilio o presso le loro attività; senza un’auto, spiegano alcune donne intervistate da organi di stampa straniera, non si riesce a farlo e si è anche costretti a rinunciare a tali posizioni, nonostante siano disponibili anche al sesso femminile.

Il PIF, fondo sovrano di Riad, ha speso di recente ben 3,5 miliardi di dollari per rilevare il 5% di Uber e sostenere così il programma in favore delle donne, segno di un’attenzione senza precedenti verso la condizione femminile nel regno.

Lavoro in mano agli immigrati

Resta il fatto che la stragrande maggioranza di chi lavora in Arabia Saudita oggi è straniero. Sono 10,8 milioni i lavoratori stranieri residenti nel paese, di cui 3 milioni di indiani, 2,5 milioni di pachistani, 2,2 milioni di egiziani, 1,4 milioni di yemeniti e 1,2 milioni di bengalesi. Considerando che la popolazione residente totale è inferiore a 33 milioni di persone, si capisce come a trainare l’economia saudita siano gli stranieri, impiegati specialmente petrolifero e dell’ingegneria.

La nuova politica saudita è diventata molto più restrittiva sull’immigrazione, nonostante negli ultimi 3 anni siano stati concessi 24,3 milioni di permessi di soggiorno, solamente in lieve calo negli ultimi mesi. Agli stranieri, però, viene precluso un numero crescente di campi occupazionali, al fine di stimolare il lavoro tra i sauditi per le professioni più qualificate.

Ad esempio, dallo scorso anno è fatto divieto agli stranieri di possedere un negozio di telefonia. (Leggi anche: In Arabia Saudita vita non più gratis)

Sarà ancora solo una svolta simbolica, ma per la prima volta nella storia è stato consentito a 2.000 donne di fare parte del gruppo di volontari a presidio del Hajj, il tradizionale pellegrinaggio annuale dei mussulmani di tutto il mondo a La Mecca, che questa settimana dovrebbe far affluire nella città sacra per l’islam circa 1,7 milioni di fedeli. Pur indossando il niqab, il velo nero integrale, le donne stanno potendo essere parte attiva di una manifestazione, che per il regno rappresenta il momento più alto dell’anno. Qualcosa sta cambiando a Riad.