Calcio e tasse, un binomio che non sempre è andato d’accordo. Eppure, stavolta la Serie A rischia una stangata per colpe non proprie. Sui giocatori stranieri ingaggiati dalle squadre italiane non c’è ancora alcuna certezza del beneficio fiscale garantito formalmente da una misura approvata lo scorso anno. Facciamo un passo indietro e spieghiamo cosa sta succedendo. Era il mese di aprile del 2019 e il governo Conte vara il cosiddetto Decreto “Crescita”, in cui è inserita una norma sul rimpatrio dei “cervelli”.

In pratica, alle aziende italiane che assumono dipendenti che nei due anni precedenti hanno avuto la residenza all’estero viene concesso di pagare le imposte sul 30% dell’imponibile. Il Parlamento, fiutando il rischio che l’opinione pubblica avrebbe gridato allo scandalo, accusando la politica di favorire eccessivamente gli interessi dei club di calcio, mesi dopo restringe il beneficio a favore dei giocatori stranieri (o italiani tornati a calpestare i campi di Serie A), elevando al 50% l’imponibile tassato e prevedendo un’imposta una tantum dello 0,50% dell’intero imponibile, il cui gettito sarebbe andato a finanziare i vivai.

Queste norme avrebbero agevolato alcuni acquisti eccellenti, tra cui quelli di Matthijs de Ligt alla Juventus, Romelu Lukaku all’Inter e Zlatan Ibrahimovic al Milan. Senonché, ad anno ormai concluso manca il decreto attuativo del governo per estendere il beneficio fiscale alle squadre di calcio. Per queste ultime, un salasso di svariati milioni di euro, divenuto concreto dopo che l’Agenzia delle Entrate con la circolare n.33/E ha chiarito che, in assenza dell’emanazione del relativo decreto, l’imposizione fiscale deve considerarsi ordinaria. La Lega di Serie A ha scritto al governo, sollecitando di agire in tal senso. Alla giornata di oggi, sono arrivate rassicurazioni solamente sull’approvazione del credito d’imposta a favore degli sponsor.

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Stangata fiscale in piena crisi Covid

In realtà, non si è trattato del tutto di un fulmine a ciel sereno, tant’è che Inter e Juve avevano accantonato con l’ultimo bilancio poste per rispettivi 11 e 7 milioni di euro, prendendo atto della mancata emanazione del Dpcm.

Di certo, la questione rischia di diventare spinosissima, perché il calcio italiano, così come nel resto d’Europa, sta accusando un duro colpo con l’emergenza Covid. I ricavi ai botteghini si sono azzerati, a causa del divieto per i tifosi di andare allo stadio. Lo stesso merchandising è in crisi, vuoi per le chiusure delle attività commerciali imposte dal governo per frenare i contagi, vuoi anche per le minori disponibilità economiche delle famiglie.

L’ipotesi che sta prendendo piede tra i club sarebbe di pagare per intero le imposte sugli stipendi dei potenziali giocatori beneficiari del Decreto “Crescita”, così da evitare il sorgere di un contenzioso con il Fisco. E se il governo si decidesse finalmente a emanare il decreto, le società vanterebbero un credito fiscale, a quel punto. Tutto quadrerebbe in tempi normali, ma questi non lo sono per niente. La Serie A è in crisi di liquidità e di tutto pensava, tranne che avrebbe dovuto pagare imposte in più rispetto al dovuto in un momento così drammatico per le sue finanze. L’unica nota di sollievo è arrivata con l’ingresso dei fondi privati al 10% del capitale nella media company che gestirà i diritti TV. Questi verseranno quasi 1,7 miliardi di euro per 10 anni, sebbene sui tempi e i modi di distribuzione di tali risorse non sia stato ancora trovato un accordo. E, comunque, saranno entrate future ancora incerte, a fronte di scadenze fiscali certe e ravvicinate. Ancora una volta il governo danneggia il sistema economico nazionale con i suoi tentennamenti, ritardi ingiustificati e una dose di demagogia e paternalismo nei provvedimenti adottati, che crea solo nuove tensioni sociali e incertezze.

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