Era l’agosto del 2020, l’Italia usciva da lunghi mesi di lockdown, il premier Giuseppe Conte monopolizzava l’informazione con conferenze stampa quotidiane e a colpi di Dpcm. L’economia collassava sotto i colpi delle restrizioni anti-Covid, il debito pubblico esplodeva e l’allarme spread aveva fatto capolino a marzo nelle prime settimane di pandemia per sparire subito dopo grazie alla BCE. Al Meeting dell’Amicizia di Rimini, organizzato come ogni anno da Comunione e Liberazione, l’allora ex governatore della BCE, Mario Draghi, tenne un discorso che pochi mesi dopo lo avrebbe portato a Palazzo Chigi.

Ci tenne a rivelarci l’esistenza del debito “buono” e del debito “cattivo”, laddove il primo servirebbe per sostenere la crescita dell’economia, mentre il secondo ruberebbe il futuro alle nuove generazioni. Poco prima aveva esternato idee simili nel corso di un’intervista rilasciata al Financial Times.

Allarme spread tornato

Politici di tutti gli schieramenti e stampa “mainstream” si sperticarono in lodi. Da quel momento, la crisi del debito esce dai loro pensieri. Lo scontro titanico tra pro-vax e no-vax sostituì quello ormai stanco tra favorevoli e contrari all’aumento della spesa pubblica. Del resto, con la BCE che acquistava titoli di stato in quantità industriali, il costo di emissione scendeva di mese in mese ai minimi storici.

Siamo a maggio 2022 e Draghi è premier da 15 mesi. Eppure, in Italia è tornato l’allarme spread. In settimana, i BTp a 10 anni sono arrivati ad offrire più del 2% dei Bund di pari durata. Quando Draghi entrò a Palazzo Chigi, la differenza era scesa fin sotto 0,9%. Improvvisamente, nessuno più si riempie pubblicamente la bocca di debito buono, perché ha capito che la foglia di fico dietro cui ci si poteva nascondere per raccontare simili panzane sia caduta.

La BCE segnala che da qui ai prossimi mesi alzerà i tassi d’interesse per far fronte a un’inflazione esplosa al 7,5% nell’Eurozona ad aprile.

Già ha cessato gli acquisti dei bond con il PEPP a fine marzo, mentre nel terzo trimestre porrà fine anche a quelli condotti con il “quantitative easing”. I governi dovranno tornare a fare i conti solamente con il mercato. Hai voglia a raccontare agli investitori che stai emettendo debito buono. Quelli lo vedranno per ciò che è: debito. Punto.

Da whatever it takes a nuova crisi del debito

Peraltro, non che la qualità della spesa pubblica sia migliorata sotto Draghi. Abbiamo più redditi di cittadinanza e bonus a pioggia, anziché selettivi. Quanto alle riforme, nessuno ha visto qualcosa. Comunque sia, è bastato far venire meno quelle condizioni monetarie create da Draghi quando era a capo della BCE per far crollare l’impalcatura su cui si reggevano i discorsi sul debito buono. E il premier sa perfettamente come stanno le cose, semplicemente neanch’egli aveva previsto una reflazione così veloce e accentuata. Sperava che l’appuntamento con la realtà sarebbe arrivato dopo la fine della legislatura e che l’allarme spread sarebbe tornato con qualcun altro a Palazzo Chigi. Avrebbe potuto dire – meglio, far dire ai suoi lacchè nelle redazioni dei giornali – che fosse frutto della scarsa credibilità del malcapitato di turno.

Invece, il destino sa essere beffardo. Draghi contribuì a fare esplodere lo spread nel 2011 firmando da governatore “in pectore” della BCE la famosa lettera indirizzata al governo Berlusconi. Arrivato a Francoforte, seppe spegnerlo con il celeberrimo “whatever it takes”. Adesso, rischia di rimanerne vittima in qualità di premier. Perché tenere conferenze è una cosa, governare è un’altra.

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