Christine Lagarde sta vivendo una fase assai delicata per la sua presidenza alla BCE. Dopo avere contrastato efficacemente l’emergenza Covid sui mercati finanziari, adesso deve vincere la battaglia più grande: quella contro il rischio deflazione. Gli stimoli monetari di questi mesi, potenziati di 1.470 miliardi solo tra PEPP e QE, e la liquidità a pioggia erogata alle banche dell’Eurozona a tassi negativi hanno sventato la crisi dei debiti sovrani tra gli stati fiscalmente più deboli. Tant’è che l’Italia sta riuscendo a indebitarsi a costi bassissimi, pur i più alti dell’area.

Tuttavia, a settembre l’indice “core” dell’inflazione, che esclude componenti volatili come i prezzi energetici e gli alimentari, è sceso al minimo storico dello 0,2%. A Francoforte è scattato l’allarme, perché questo dato spaventa ben più di quello dell’inflazione generale, scesa nello stesso mese al -0,3%, stando alle stime preliminari.

L’inflazione “core” segnala l’andamento di fondo dei prezzi, al netto di quelle variabili di breve periodo che incidono al rialzo o al ribasso sul dato complessivo.

Per capirci, se il petrolio sale di prezzo parecchio a causa di un uragano che colpisce gli impianti estrattivi nel Golfo del Messico, l’inflazione ne risente e sale, mentre quella di fondo no. E quest’ultima ci consente, quindi, di capire la reale direzione dei prezzi nell’arco dei mesi successivi.

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Il rischio deflazione allarma la BCE

Alla BCE si teme che l’inflazione core scenda per la prima volta nella storia dell’Eurozona sottozero. Perché sarebbe un grosso guaio? Sancirebbe il serio rischio di scivolamento nella deflazione, ovvero che il dato generale sia rimasto così debole a lungo da avere influito su quello di fondo, attraverso il “raffreddamento” delle aspettative. Alla lunga, infatti, inflazione generale e core diventano vasi comunicanti, perché l’uno influenza l’altro e viceversa.

L’Eurozona non può permettersi la deflazione, come nessun’altra economia a lungo. Prezzi in calo non solo rischiano di avvitare strutturalmente produzione e consumi, ma anche di provocare una spirale fatale per i debiti sovrani. Gli stati stanno accumulando debiti enormi per affrontare l’emergenza Covid e il rapporto debito/pil supererà abbondantemente il 100% a fine anno in grandi economie come Francia e Spagna, mentre in Italia siamo già oltre da 30 anni. I debiti si ripagano sempre senza problemi, a patto che sussistano due condizioni: i costi restino contenuti rispetto al pil e non superino i tassi di crescita nominali.

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L’impatto sui debiti sovrani

La BCE sta riuscendo magistralmente a tenere bassi i primi, non anche a risollevare i secondi, che si abbasserebbero ulteriormente con la deflazione. Facciamo un esempio: se il debito pubblico costa mediamente il 2,5%, risulta necessario che la crescita nominale del nostro pil sia almeno pari al 2,5%. Con un’inflazione intorno al target della BCE (“vicino, ma di poco inferiore al 2%”) ci basterebbe una crescita reale di circa mezzo punto percentuale, ma se i prezzi finissero per diminuire – supponiamo dello 0,5% – dovremmo crescere del 3% solo per tenere sotto controllo la dinamica del debito.

La BCE ha previsto al board di settembre un’inflazione dello 0,3% quest’anno, in risalita all’1% nel 2021 e all’1,3% nel 2022. Considerate queste stime carta straccia. Non solo perché sono state effettuate in una fase di estrema incertezza sull’andamento dell’economia nei prossimi mesi, ma anche perché Francoforte ha una pessima storia recente di capacità previsionale. Dal 2013 ad oggi, non ha centrato il target e ha costantemente elaborato stime per il medio-lungo termine rivelatesi superiori ai dati effettivi.

In sostanza, ha sempre (volutamente?) sovrastimato il tasso d’inflazione per mostrarsi capace di agguantare l’obiettivo.

I debiti sovrani non sarebbero sostenibili a lungo con tassi d’inflazione nulli o negativi. Non in Italia e neppure in paesi come Spagna e Francia. La BCE potrebbe pure annientare i rendimenti sui mercati per anni, ma alla fine si vedrebbe costretta a intervenire con soluzioni più drastiche per evitare che uno o più stati membri perdano l’accesso ai capitali. Come? Con la monetizzazione dei debiti, acquistandoli in quantità almeno sempre pari alle emissioni nette. Un po’ come ha iniziato a fare dal marzo scorso. L’emergenza Covid renderà inevitabilmente strutturale un modus operandi sin qui considerato straordinario. La Germania e i “falchi” del Centro-Nord Europa protesteranno, ma a meno che vogliano rinunciare all’euro, dovranno chinare il capo e accettare le estreme conseguenze di una unione monetaria.

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