I conti di Alitalia migliorano con la gestione commissariale, ma restano molto negativi. Nel primo semestre di quest’anno, le perdite complessive avrebbero toccato i 315 milioni di euro, in netto calo rispetto ai 527,6 milioni dello stesso periodo dello scorso anno. Il dato non è stato ufficialmente riportato, ma risulta dalle stime di vari analisti, che conteggiano, oltre all’Ebit negativo per 124 milioni di euro, i circa 190 milioni di oneri diversi, tra cui i 45 milioni di interessi sul prestito-ponte del Tesoro da 900 milioni e che, in teoria, andrebbe rimborsato a settembre.

Nel primo semestre dello scorso anno, sul quale i commissari hanno inciso per appena un terzo del periodo, l’Ebit si era attestato a -326 milioni, ovvero su valori doppi rispetto a quelli attuali, a fronte di un fatturato minore del 4,3%.

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Tuttavia, le note positive finiscono qua. Sommando gli ammortamenti, si ottiene un Ebitda negativo pari al 16,5% dei ricavi. Nessuna compagnia aerea in Europa ha un margine negativo. E la crescita dei passeggeri dell’1,5% a 10,21 milioni di unità è sì incoraggiante, ma si confronta con una media del mercato del +6-7%, come dire che Alitalia continua a perdere quote di mercato. Questi numeri appaiono disarmanti: ogni giorno, anche volendo non considerare gli oneri di natura finanziaria, i costi superano i ricavi di circa 1,38 milioni di euro. Ogni volta che un aereo della ex compagnia di bandiera si alza in volo brucia solo denaro.

In queste condizioni, inevitabile che chiunque si facesse avanti per comprare una realtà così decotta avanzerebbe offerte stracciate. In effetti, Lufthansa si comprerebbe per 300 milioni una novantina di aerei della flotta Alitalia, chiedendo al contempo il licenziamento di un terzo del personale dipendente, ovvero di 4.000 dipendenti sui 12.000 in organico. Per questo, il governo giallo-verde di Luigi Di Maio e Matteo Salvini punterebbe non solo a far rimanere in Italia il 51% del capitale della compagnia, come aveva annunciato nei giorni scorsi il ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, bensì a trovare attori industriali capaci di rilevare il 100% di Alitalia per rilanciarla come nuova compagnia di bandiera.

Ennesima operazione di sistema

A conti fatti, servirebbero almeno 2-3 miliardi per potenziare la flotta sul lungo raggio, quello potenzialmente più remunerativo, specie se in grado di sfruttare i flussi turistici in ascesa dai mercati emergenti, Cina e Russia in testa. Dove trovare tanto denaro? Stando a quanto riporta La Stampa, i due vice-premier avrebbero individuato in Cassa depositi e prestiti, Poste Italiane e Ferrovie dello stato i futuri azionisti di Alitalia. Se l’indiscrezione corrispondesse al vero, sarebbe una conferma del sospetto che proprio Investire Oggi ha avanzato nei giorni scorsi a proposito delle Fs, il cui cda è stato da poco sciolto e rinnovato e riguardo alla quale Toninelli ha parlato di fine dell’alleanza con Anas. Il progetto del governo penta-leghista sarebbe questo: appioppare la compagnia ad almeno tre soci stabili industriali. Per superare le rimostranze abbastanza scontate della Cdp, specie da parte delle Fondazioni bancarie azioniste al 15%, l’ente potrebbe essere indotto dal governo a ricorrere a una controllata per investire in Alitalia, visto che per statuto non può iniettare liquidità in società in perdita. E la compagnia è simbolo nazionale del parassitismo societario: 1,6 miliardi di perdite cumulate in 4 anni e 10 miliardi a carico dei contribuenti dal 2008.

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E’ evidente che un simile piano di Di Maio e Salvini verrà pagato dagli italiani, che tramite il biglietto dei treni e i risparmi postali gestiti dalla Cdp sosterranno per l’ennesima volta un’operazione “di sistema”, sperando che sia l’ultima e, soprattutto, che si riveli non fallimentare.

Forti i dubbi. Non si vede come si possa rilanciare l’azienda senza tagli al personale. Gli investimenti necessitano di anni prima di dare i loro frutti. Se Alitalia puntasse a rafforzarsi nel lungo raggio, ad esempio, dovremmo attendere diversi mesi prima che acquisti i velivoli, che ottenga le rotte negli scali desiderati, che predisponga e attui una strategia commerciale per crearsi almeno una nicchia di mercato. Nel frattempo, le perdite continueranno ad accumularsi e a pagare il conto saranno gli azionisti, ovvero gli stessi contribuenti, trattandosi di società partecipate dallo stato, che scaricheranno sul settore pubblico i loro costi.

D’altra parte, l’unica reale soluzione sembrerebbe la rinuncia dell’Italia a una grande compagnia. Alitalia non lo è nemmeno più, avendo appena un quinto dei passeggeri annui di un colosso come Lufthansa o di una low cost come Ryanair. Tant’è che le statistiche FlightStats del primo semestre, secondo cui quella italiana sarebbe stata la compagnia più puntuale in Europa e quarta al mondo con l’85,1% dei voli atterrati in orario, possono anche essere lette in un’ottica meno entusiasmante: avendo meno passeggeri da trasportare, trova più facile essere puntuale anche in alta stagione. Il dilemma per Alitalia sta tutto qui: essere ridotta a mero vettore nazionale e subire un ulteriore smantellamento o provare a rilanciarsi? La prima risposta sembrerebbe la più ovvia, dato il flop dei tentativi esperiti nell’ultimo decennio dai “capitani coraggiosi” prima e nell’era Etihad dopo.ù

Serve una dirigenza esperta di aerei

Eppure, anche l’ipotesi minimal ha i suoi contro. Negli ultimi anni, ad esempio, mentre pezzi di azienda venivano venduti per fare cassa e per tagliare i famosi “rami secchi”, diversi servizi hanno dovuto essere affidati in “outsourcing”, ma finendo con il fare esplodere i costi, segno evidente di come la vecchia dirigenza non sia stata in grado o non abbia voluto spuntare le migliori condizioni contrattuali possibili con i fornitori dei servizi, come svela il caso raccapricciante dei contratti assicurativi contro il rischio caro-carburante, paradossalmente siglati alla vigilia del crollo del prezzo del petrolio, con la conseguenza che anche quando un barile è arrivato a costare meno di 30 dollari al barile, Alitalia lo ha continuato a pagare circa il doppio, avendo “bloccato” il prezzo su livelli molto più alti.

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E proprio questo sembra il problema della vecchia e della nuova Alitalia che verrà, ossia l’assenza di una dirigenza con conoscenze ed esperienza nel settore degli aerei. Accollare un carrozzone a società statali con il solo obiettivo di evitarne il fallimento formale e sperando che i problemi possano risolversi con una mera iniezione di capitali freschi è stata un’impresa già vista e fallita. Solo un socio industriale già del campo potrebbe rilanciare la compagnia, ammesso che si trovi alle condizioni desiderate, cioè di nazionalità italiana e che non imponga tagli al personale. Questa prospettiva semplicemente non esiste, per cui non ci resta che assistere (popcorn renziani in mano?) alla ri-nazionalizzazione mascherata. Difficile, però, che chi oggi si occupa di spedire posta e pacchi o di fare transitare i treni sui propri binari si scopra un genio del trasporto aereo. Per il bene dei contribuenti, dovremmo solo augurarci che Di Maio e Salvini estraggano dal cilindro un coniglio magico sinora mai trovato dagli illustri predecessori.

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