L’Africa nord-orientale potrebbe essere a un passo da una guerra dalle conseguenze ben più vaste di quelle tipiche di uno scontro locale. Il 4 gennaio scorso, l’Egitto ha inviato le sue truppe in Eritrea, al confine con il Sudan. Poco dopo, il governo sudanese ha a sua volta mobilitato l’esercito al confine con l’Egitto, ne ha richiamato l’ambasciatore e ha chiuso le frontiere con l’Eritrea senza fornire spiegazioni. Cosa sta succedendo? Qualche settimana fa, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è recato in visita a Khartoum, capitale del Sudan.

E’ stata la prima volta da quando l’Impero Ottomano fu respinto dallo stato africano nel 1895. Ha incontrato il presidente Omar al-Bashir e ha siglato 13 accordi, che nel complesso puntano a sostenere gli interscambi tra le due economie a 10 miliardi di dollari all’anno dagli attuali 500 milioni. Uno di questi accordi è stato eclatante: la cessione da parte del Sudan alla Turchia per 99 anni dell’isola di Suakin, che un tempo era parte dell’Impero Ottomano e che dista 560 km dalla capitale sudanese ed è situata nel Mar Rosso. (Leggi anche: Crisi in stile Venezuela evitata, l’Egitto da una lezione a Caracas)

Ankara, tramite l’Agenzia per la Cooperazione e il Coordinamento, si è impegnata a ricostruire le rovine storiche dell’isola e allo stesso tempo a trasformarla in una sorta di hub del turismo mussulmano, come lo era qualche secolo addietro. I fedeli in pellegrinaggio verso La Mecca verranno dirottati nel Sudan, dove potranno visitarne i siti storico-archeologici e chiaramente anche in Turchia.

L’acqua del Nilo suscita tensione

I turchi sono già molto presenti nelle acque sudanesi, ufficialmente al fine di proteggere le navi in transito dello stato amico dal terrorismo. In realtà, la regione è divisa da due blocchi geopolitici abbastanza distinti: da una parte troviamo l’Egitto, Eritrea, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e l’Arabia Saudita che avrebbero sostenuto i ribelli del Sudan, nonostante le capitali coinvolte neghino gli addebiti di Khartoum; dall’altra abbiamo Turchia, Sudan, Etiopia, Iran e Qatar, accusati ormai tutti più o meno esplicitamente dall’altro blocco di sostenere il terrorismo islamista, fomentando formazioni come i Fratelli Mussulmani, che in Egitto sono stati per decenni all’opposizione e sono arrivati al governo de Il Cairo tra il 2011 e il 2013 con la presidenza di Mohammed Morsi, deposta dall’attuale presidente Al Sisi, sostenuta dall’esterno sia dal Sudan che dalla Turchia.

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A sua volta, il Sudan è stato dilaniato per quasi un ventennio da una guerra civile sanguinosissima, che nella sola regione del Darfur ha provocato 300.000 morti e 2,7 milioni di sfollati. Nel 2011, il suo territorio è stato smembrato dalla secessione del Sud Sudan, che possiede oggi i due terzi del vecchio territorio del paese e la stragrande maggioranza dei pozzi di petrolio.

Il panorama si complica per via della costruzione di una diga, la Grand Renaissance Dam, che l’Etiopia ha in progetto di costruire autonomamente con 5 miliardi di dollari. L’opera appare colossale, sarà alta 155 metri e lunga 1.800, in grado di generare 6.000 megawatt di elettricità, quando ancora oggi l’Eritrea ne produce appena 3.200. La diga sarà situata a circa 20 miglia dal confine con il Sudan, ma l’Egitto teme che finirà per ridurre l’acqua a disposizione per le sue famiglie e le sue imprese, che al 90% dipendono dal fiume Nilo e per il 60% viene originata proprio in Etiopia. La diga arriverebbe a ridurre del 51% la terra coltivabile per gli egiziani, uno scenario catastrofico per Il Cairo, che teme di dovere fronteggiare una crisi alimentare, se non proprio un evento biblico per la sua popolazione.

Parti in causa deboli per scatenare una guerra

Si aggiunga che i rapporti tra Egitto e Sudan risultano tesi dal 1956, anno in cui Khartoum ottenne l’indipendenza. Le tensioni militari non sono una vera novità nelle acque del Nilo, ma quel che maggiormente preoccupa oggi più di altre volte è che esse s’inquadrano adesso in un contesto geopolitico più ampio e dove si sono formati due schieramenti più nitidi. Il Sudan rischia, ad esempio, di tornare ad essere teatro di scontri interni tra il governo islamista ufficiale e i ribelli, similmente allo Yemen degli ultimi anni. Sauditi ed egiziani guiderebbero i secondi e turchi e iraniani armerebbero il primo.

L’Africa potrebbe diventare il terreno ideale di una “proxy war” tra Riad e Teheran, che si fronteggiano ormai apertamente in vari contesti esterni nel Medio Oriente, tra cui Siria e Libano. Ankara ambisce a imporre il suo predominio nel mondo islamico e trova quale rivale naturale in ciò proprio la monarchia saudita, custode delle città sante di Medina e La Mecca. A questo punto, basterebbe una scintilla in stile Sarajevo 1914 per accendere la miccia. E’ vero anche, però, che nessuno degli attori in campo sembra realmente capace di sostenere una guerra. Non l’Egitto, che dopo la fine del lungo regime di Hosni Mubarak è alle prese con una crisi economica, che da mesi è sfociata in un’inflazione fino al 30% e che provoca malcontento tra le fasce più disagiate della popolazione, gran parte delle quali vicine ai Fratelli Mussulmani. Non la Turchia, che pur godendo di un’economia in forte crescita, da tempo non riesce ad attirare capitali stranieri e ha rovinato le relazioni con l’Europa e gli USA da una parte e, a fasi alterne, anche con la Russia dall’altra. Non l’Iran, che sta affrontando proprio in questa fase proteste interne contro un’economia incapace di generare lavoro e benessere diffuso.

Non, infine, l’Arabia Saudita, che sta riformandosi per sganciarsi dall’eccessiva dipendenza dal petrolio e proprio per questo non può permettersi di distogliere troppe risorse all’economia civile per scopi militari. Insomma, grazie alle varie debolezze, si dovrebbe evitare il peggio, anche se ciò non potrebbe escludersi che accada, qualora qualcuna delle parti sparasse il famoso colpo di pistola irreparabile, un po’ per caso, un po’ per irresponsabilità. (Leggi anche: Come USA e Arabia Saudita possono abbattere il regime iraniano per via economica)

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