Il ministro del Turismo, Daniela Santanchè, intende presentare al Consiglio dei ministri una riforma del mercato degli affitti brevi. Il tema è particolarmente sentito nelle grandi città, non solo in Italia. Le proteste degli studenti universitari contro il caro affitti sono suonate come una sveglia per la politica italiana, che per troppi anni aveva ignorato il problema. I canoni di locazione lievitano nelle grandi città per il semplice fatto che aumenta la domanda e parimenti si riduce di anno in anno l’offerta.

Cosa sta succedendo di preciso? Prende sempre più piede nel Bel Paese il cosiddetto “modello Airbnb”. Sono ormai centinaia di migliaia gli appartamenti, le ville e le case singole affittati ai turisti anziché ai residenti per scopo abitativo. La ragione è semplice: gli affitti brevi fruttano di più e danno molti meno problemi. Non c’è il rischio di ritrovarsi inquilini morosi non sfrattabili, tanto per iniziare.

Gli affitti brevi nel 2022 valevano 11 miliardi di euro di PIL, limitandoci alle prenotazioni. Altri 44 miliardi sono arrivati grazie all’indotto. Totale: 55 miliardi di euro. Gli annunci sulle piattaforme digitali sono salite a 700.000 dagli appena 20.000 del 2011. Di questi, ben 400.000 sono gestiti solo da Airbnb. Per quest’anno l’Italia si attende 68 milioni di turisti in arrivo (+4,3%) per 267 milioni di pernottamenti (+3,2%). La spesa turistica salirebbe del 5,4% a 46 miliardi. Ci sono forti interessi dietro alle novità annunciate dal governo, che ha cercato di rispondere così alle richieste di regolamentazione di Federalberghi.

Affitti brevi, due notti minime in b&b

A differenza di quanto accade in molti paesi europei, tra cui Germania, Francia e Olanda, neppure la nuova disciplina sugli affitti brevi prevede limitazioni in termini di numero di giorni massimo durante l’anno o in rapporto alla popolazione residente. La novità riguarderà, tuttavia, l’obbligo di prenotare almeno due pernottamenti consecutivi nei b&b.

Ciò potrà essere introdotto come obbligo da parte dei sindaci per i Comuni con almeno 5.000 abitanti e rientranti nelle fasce ad alta intensità turistica. Saranno esentate le famiglie con almeno un genitore e tre figli. Altra previsione: l’istituzione di un Codice identificativo nazionale (Cin) per ogni abitazione affittata. Esiste già, ma è su base regionale e non esiste una banca dati nazionale, per cui è possibile ad oggi scrivere anche un Cin fittizio in fase di locazione.

Qual è la ratio di questa scelta? Costringere turisti e non ad affitti brevi di almeno due giorni nei b&b in certe aree ne disincentiverà la domanda a favore delle strutture alberghiere. Da un lato può apparire come un’ingiustizia e certamente è un’intromissione dello stato in un contratto tra privati. E l’esenzione per le famiglie numerose non sarebbe controllabile, a meno che lo stato non voglia entrare nelle camere da letto a contare il numero dei pargoli. Dall’altro bisogna ammettere che esiste sul piano legislazione una disparità di trattamento tra gli alberghi costretti a seguire rigide discipline in tema di sicurezza, lavoro, fiscale, ecc., e una miriade di appartamenti e case sfuggenti ad ogni obbligo, pur essendo spesso divenute a tutti gli effetti ormai strutture ricettive. Gli affitti brevi, è bene ricordarlo, non generano per legge redditi d’impresa se derivanti da fino a quattro unità immobiliari.

Piattaforme digitali contro ritenuta alla fonte

C’è un’altra questione che da tempo è oggetto di contesa tra le piattaforme digitali e il governo italiano: l’obbligo di trattenere la cedolare secca del 21% dai ricavi fatturati ai proprietari. Trattandosi di società con sede all’estero, sostengono di non essere tenute a tale adempimento. L’Unione Europea ha di recente stabilito diversamente. Ciò aiuterebbe lo stato italiano a recuperare grossa parte del gettito perduto a causa dell’evasione fiscale.

Ammonta ad appena 80 milioni di euro quello legato agli affitti brevi contro ipotesi di almeno 1 miliardo.

Le piattaforme come Airbnb trovano per nulla conveniente applicare la cedolare secca alla fonte. Temono che altrimenti i proprietari degli immobili preferiscano fare da sé nella gestione degli affitti brevi. Considerate che queste in media decurtano già intorno al 20% della cifra sborsata da chi prenota a titolo di gestione. La percentuale sale fino al 35% nel caso in cui la piattaforma gestisca per intero il rapporto tra le parti, non limitandosi solo a fungere da vetrina virtuale per l’immobile.

Prezzi alle stelle nei b&b

Il mercato degli affitti brevi diventa sempre più redditizio. Il sito Airdna ha trovato che in una città come Milano nel luglio del 2022 un immobile si trovava in media per 231 dollari (circa 227 euro al tasso di cambio medio del mese) al giorno, per un incasso medio di oltre 4.100 euro al mese per immobile. Capite bene perché sia sempre meno conveniente affittare casa a studenti e lavoratori fuori sede. Per quanto i canoni di locazione siano alti, non raggiungeranno mai le cifre applicate ai turisti. Con soli 2-3 mesi di affitti brevi si possono ottenere ricavi almeno pari a 12 mesi di affitto per scopo abitativo. E, ripetiamo, con minori rischi per il proprietario. Attualmente, ad esempio, nel solo capoluogo lombardo risultano disponibili più di 17.500 immobili su Airbnb.

Con questi prezzi, effettivamente sostenere che i b&b siano un’alternativa low-cost agli alberghi non è sempre corretto. D’altra parte, limitare l’offerta di immobili può frenare il boom del turismo in corso in tutta Italia. Ci sono centri cittadini rinati grazie agli affitti brevi. Questi non solo vivacizzano i luoghi, ma oltretutto favoriscono gli interventi di ristrutturazione di case e appartamenti altrimenti lasciati all’incuria. Un caso esemplare è diventato in questi anni Lisbona, dove interi quartieri sono passati dall’essere ghetti a centri di attrazione turistica.

Ma anche lì i residenti mugugnano, perché vivere (in affitto) è diventato troppo caro.

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