La banca centrale ha smentito, ma negli ultimi giorni si sono moltiplicate le fonti, secondo le quali sarebbe imminente la riforma monetaria del governo per cercare di superare l’ormai cronica crisi dell’economia cubana. Stando a un uomo d’affari straniero e a un paio di funzionari pubblici, il peso convertibile verrebbe eliminato e il peso ufficiale mantenuto e svalutato del 95%. Ad oggi, Cuba adotta una doppia moneta: il CUC o peso convertibile può essere usato solo per le relazioni commerciali con l’estero e scambia a 1,08 contro il dollaro.

I residenti dell’isola possono acquistare CUC a un tasso fisso di 24 CUP o pesos ufficiali e possono venderli per 25 CUP.

Con la riforma, rimarrebbe in vita solo il CUP e potrà essere scambiato contro il dollaro a un tasso di 1:20, cioè servirà una quantità di pesos per 20 volte più alta per acquistare un dollaro degli States. La svolta porrebbe fine a un regime monetario disfunzionale, che impedisce il sufficiente afflusso di valuta estera, tant’è che da tempo scarseggiano sempre più beni, a causa dei pochi dollari disponibili per importarli.

Nei mesi scorsi, il governo ha rilasciato le licenze per l’apertura sull’isola di numerosi negozi in cui i prodotti si acquistano in dollari, così da agevolarne la circolazione e affievolirne la carenza. L’esperimento da solo non può bastare per risolvere il problema alla radice, dato che le famiglie posseggono valuta estera perlopiù grazie alle rimesse dei familiari all’estero. Peraltro, la pandemia ha aggravato le condizioni finanziarie, colpendo il turismo, settore dal quale proviene gran parte dei dollari in ingresso.

La crisi di Cuba spinge all’apertura di negozi per clienti fortunati

Riforma ad alto rischio

La riforma non sarà indolore, per quanto il governo si affretti a rassicurare sia sulla sua gradualità, sia sull’assenza di cambiamenti per gli abitanti.

Non è così. Il peso verrebbe nei fatti svalutato del 95% e del resto questa misura si rivela essenziale per cercare di rilanciare la competitività delle aziende locali e per attirare capitali dall’estero. Poiché la maxi-svalutazione equivarrebbe a perdere potere di acquisto – i beni importati costerebbero molto di più – ecco che lo stesso regime starebbe discutendo l’ipotesi di innalzare il salario minimo a 1.250 pesos al mese, quando ad oggi è fissato a 400 pesos.

Quest’ultima misura, se introdotta, rischierebbe di alimentare una spirale inflazionistica molto pericolosa. Oltre che per la svalutazione, i prezzi esploderebbero anche per il maggiore costo del lavoro. Peraltro, risultando insufficiente a garantire il mantenimento del potere di acquisto, probabile che i lavoratori faranno pressioni per ottenere ulteriori aumenti nell’immediato futuro, innescando una reazione a catena difficilmente arrestabile.

Il problema di Cuba è che parla da troppi anni di riforme, salvo rinviarle alle calende greche. Adesso, i nodi sono arrivati al pettine e i nodi vanno sciolti una volta per tutte. Nelle scorse settimane, l’esecutivo ha anche annunciato un allentamento delle restrizioni a carico del settore privato per cercare di spronare la produzione dopo lo shock seguito all’emergenza Covid. La riforma monetaria è precondizione per rendere possibile la crescita sull’isola, ma difficilmente verrà attuata in un’unica soluzione a partire dall’1 ottobre, come pure si è vociferato. Troppo alto il rischio di collasso dei consensi tra la popolazione, dove lo stipendio medio si aggira su poche decine di dollari al mese.

La crisi a Cuba accelera la fine della doppia moneta: si inizia a pagare solo in pesos

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