La gestione delle istanze di rimborso da parte dell’amministrazione finanziaria può trasformarsi, in alcuni casi, in un percorso ad ostacoli capace di incidere in modo rilevante sulla posizione del contribuente. Un recente intervento della Corte di cassazione offre un chiarimento importante: quando l’ente impositore moltiplica le richieste di documentazione e di fatto sospende senza reali motivi l’esame dell’istanza, tale comportamento equivale a un rifiuto vero e proprio, e come tale può essere contestato davanti al giudice.
La pronuncia in questione è la sentenza n. 31033 del 27 novembre 2025, con cui la Suprema corte ha accolto il ricorso presentato da un istituto bancario.
Il caso trae origine da due comunicazioni ricevute dalla banca da parte dell’Agenzia delle entrate: nella prima venivano domandati ulteriori documenti e, nello stesso tempo, si affermava l’impossibilità di procedere al rimborso richiesto; nella seconda si pretendeva un’ulteriore integrazione documentale, ancora una volta con riferimento al medesimo credito. Per la Cassazione, questo comportamento non era una semplice attività istruttoria, ma una manifestazione inequivocabile di volontà negativa da parte dell’amministrazione.
Interpretazione estensiva degli atti impugnabili su rimborso
Per comprendere il ragionamento dei giudici, occorre considerare che l’articolo 19 del decreto legislativo 546/1992 elenca in maniera tassativa gli atti contro i quali è possibile presentare ricorso dinanzi al giudice tributario. Tale elenco, però, secondo la Cassazione non deve essere inteso in senso rigido. L’evoluzione del sistema tributario, le esigenze di tutela del contribuente, i principi costituzionali e l’ampliamento della giurisdizione operato nel tempo dal legislatore impongono, infatti, un’interpretazione più ampia e funzionale.
In questo quadro, può essere impugnato qualsiasi atto che presenti una precisa pretesa dell’amministrazione o una volontà di rifiuto, anche se non assume formalmente la veste di un provvedimento autoritativo.
Ciò vale anche quando l’atto non è tra quelli indicati espressamente dall’articolo 19. È sufficiente che l’ente impositore comunichi, in modo chiaro e motivato, un orientamento capace di incidere sulla posizione giuridica del contribuente.
Quando nasce l’interesse ad agire
Secondo la Corte di Cassazione, l’interesse del contribuente a tutelarsi può sorgere già nel momento in cui riceve una comunicazione che renda evidente la posizione dell’amministrazione. Non è necessario attendere un provvedimento formale per potersi rivolgere al giudice: basta che l’atto comunichi una scelta sostanziale dell’ente, come il rifiuto di procedere al rimborso.
Un atto che rende nota una decisione, con motivazioni sia di fatto che di diritto, ha effetti immediati sulla sfera del contribuente. Da questo momento l’interessato è legittimato ad attivare il contenzioso per ottenere una verifica giurisdizionale sulla legittimità del comportamento dell’amministrazione.
Rimborso che non arriva: la sospensione come rifiuto mascherato
La Cassazione ha inoltre chiarito che anche un provvedimento definito dall’amministrazione come “sospensione” del procedimento può assumere natura sostanziale di rigetto. Ciò avviene quando la sospensione non rappresenta una pausa tecnica motivata da esigenze istruttorie reali, ma si traduce in un blocco indefinito dell’esame dell’istanza.
In tali casi, la sospensione diventa uno strumento attraverso cui l’amministrazione evita di valutare il diritto al rimborso, rinviando sine die la conclusione del procedimento.
Questa prassi, secondo la Corte, deve essere considerata per ciò che è nella sostanza: un rifiuto di accertare il credito vantato dal contribuente. Un comportamento del genere è immediatamente impugnabile, poiché incide in modo definitivo sull’interesse legittimo di chi richiede il rimborso.
Il caso della banca: perché le comunicazioni erano impugnabili
Nel caso esaminato, le richieste reiterate di documentazione, unite all’affermazione dell’impossibilità di procedere al rimborso, hanno convinto la Cassazione che l’Agenzia delle entrate avesse già assunto una posizione negativa sul credito vantato dalla banca. Le comunicazioni ricevute non erano semplici atti istruttori, ma espressioni di una volontà chiara di non riconoscere il diritto richiesto.
Per questa ragione, gli atti rientravano tra quelli impugnabili ai sensi dell’articolo 19, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 546/1992, che consente il ricorso contro i provvedimenti di diniego del rimborso. Non solo: anche la sospensione del procedimento, così come configurata dall’amministrazione, doveva essere equiparata a un rigetto vero e proprio, ed era quindi contestabile.
Un principio di tutela importante per il rimborso
La pronuncia della Cassazione afferma un principio di grande rilievo per chi avanza richieste di rimborso. La tutela giurisdizionale non può essere legata solo a forme rigide o a provvedimenti con determinate etichette. Conta la sostanza del comportamento amministrativo, soprattutto quando si traduce in un atteggiamento che impedisce al contribuente di ottenere una risposta definitiva ai propri diritti.
Questo orientamento contribuisce a rafforzare la certezza del diritto e mette un freno a comportamenti che, pur senza un rifiuto formale, possono neutralizzare l’ottenimento del rimborso spettante.
Riassumendo
- La Cassazione riconosce impugnabili gli atti che negano di fatto un rimborso.
- Le richieste documentali ripetute possono equivalere a un rifiuto sostanziale.
- L’elenco degli atti impugnabili va interpretato in modo estensivo.
- Il contribuente può agire appena l’amministrazione mostra una posizione negativa.
- La sospensione indefinita del procedimento è equiparata a un diniego di rimborso.
- Nel caso della banca, le comunicazioni dell’Agenzia erano ritenute rifiuti impugnabili.