I requisiti per le pensioni sono peggiorati negli anni. Ma di chi è la responsabilità? È stata la riforma Fornero, come spesso viene accusata, o l’attuale governo ha aggravato la situazione? Oppure l’inasprimento parte da lontano, dalla riforma Dini degli anni ’90? Domande legittime quando si parla di previdenza sociale, che spesso ottengono risposte contrastanti. Una cosa però è certa: prima della riforma Fornero si andava in pensione più facilmente. Dopo, invece, a causa delle regole introdotte dalla stessa riforma – e solo ereditate dai governi successivi, compreso quello attuale – i requisiti si sono via via irrigiditi.
In pensione con 5 anni di contributi e 1,2 volte l’assegno sociale
Prima del 2012, le donne potevano andare in pensione di vecchiaia con 20 anni di contributi e 60 anni di età.
Per gli uomini, con la stessa anzianità contributiva, servivano 65 anni di età. Una differenza enorme rispetto a oggi, quando servono 67 anni sia per uomini che per donne.
A questa soglia si è arrivati nel 2019, con l’ultimo scatto legato all’aspettativa di vita (+5 mesi rispetto ai 66 anni e 7 mesi precedenti). Allora era in carica il governo Conte I (M5S e Lega), ma non fu responsabilità diretta di quell’esecutivo: si trattava dell’automatismo imposto dalla legge Fornero, che adegua ogni due anni i requisiti all’aspettativa di vita calcolata dall’Istat.
Come sono peggiorate le cose negli anni
Prima della riforma Fornero, esisteva la pensione di anzianità, che consentiva di lasciare il lavoro senza limiti anagrafici con 40 anni di contributi. Dal 2012, con l’abolizione di questo strumento, sono nate le pensioni anticipate, anch’esse collegate agli scatti dell’aspettativa di vita.
Ecco la progressione:
- +1 mese nel 2013,
- +1 mese nel 2014,
- +3 mesi nel triennio 2013-2015,
- +4 mesi nel triennio 2016-2018.
Oggi servono:
- 41 anni e 10 mesi di contributi per le donne,
- 42 anni e 10 mesi per gli uomini.
Il governo Meloni ha poi introdotto una finestra di 3 mesi per la decorrenza della pensione, che di fatto comporta la perdita di tre mensilità, pur senza modificare i requisiti sostanziali.
Tornando ancora più indietro, la riforma Dini aveva introdotto per la prima volta la pensione anticipata legata a un importo minimo dell’assegno. Era possibile andare in pensione con 5 anni di contributi e 57 anni di età, a patto che la pensione fosse pari ad almeno 1,2 volte l’assegno sociale.
Con la legge Fornero, questa misura è stata irrigidita:
- età minima a 63 anni,
- importo minimo pari a 2,8 volte l’assegno sociale,
- ulteriori incrementi: +3 mesi (2013-2015), +4 mesi (2016-2018), +5 mesi dal 2019.
Oggi servono 64 anni di età e un importo pari ad almeno 3 volte l’assegno sociale (dal 2024).
Ed il futuro è ancora peggiore
Il quadro non sembra destinato a migliorare. Nel 2027 scatterà un nuovo adeguamento ai dati Istat, che porterà a:
- 67 anni e 3 mesi per la pensione di vecchiaia;
- 43 anni e 1 mese di contributi per gli uomini e 42 anni e 1 mese per le donne, per la pensione anticipata;
- 64 anni e 3 mesi per la pensione anticipata contributiva.
Inoltre, è già stato stabilito che dal 2030 serviranno:
- almeno 30 anni di contributi effettivi (senza figurativi);
- una pensione non inferiore a 3,2 volte l’assegno sociale.
Un ulteriore inasprimento, che spingerà ancora più in là l’età e i requisiti, rendendo sempre più difficile l’accesso alla pensione.