Una cosa è certa: quando si parla di aumento delle pensioni, c’è sempre tanta attenzione. Molti “drizzano le orecchie”, come si dice in questi casi, perché gli importi di alcune pensioni sono davvero troppo bassi, spesso insufficienti per vivere dignitosamente.
Ecco perché una notizia, anche lanciata senza conferme ufficiali, rischia di diventare virale, soprattutto se riguarda soggetti considerati vulnerabili: persone che, per condizioni reddituali, familiari o di salute, hanno davvero bisogno di un aiuto in più rispetto alla pensione minima.
Un tipico esempio è quello della pensione di invalidità, che in molti casi non supera i 350 euro al mese: una cifra che non garantisce certo una vita dignitosa.
L’ipotesi di un aumento dell’assegno di invalidità circola periodicamente, alimentata da interpretazioni e speranze. Ma oggi, ancora una volta, si tratta di una notizia priva di fondamento reale, nata da una lettura troppo superficiale di una sentenza della Corte Costituzionale.
Quella decisione, infatti, produce sì un vantaggio per alcuni invalidi, ma non determina un aumento generalizzato dei trattamenti.
Aumento pensione di invalidità: la notizia che tutti si aspettavano, ma dietro c’è dell’altro
Le prestazioni per i disabili sono molteplici e variano a seconda della condizione sanitaria, del grado di invalidità e del reddito personale o familiare. Nonostante siano considerate categorie fragili, gli importi restano molto contenuti.
Per fare qualche esempio:
- le pensioni di invalidità civile e l’assegno mensile si attestano attorno a 336 euro al mese;
- l’indennità di accompagnamento per chi non è in grado di svolgere le attività quotidiane in autonomia raggiunge nel 2025 i 542,02 euro al mese.
Si tratta, comunque, di importi molto bassi.
È quindi comprensibile che ogni notizia su possibili aumenti susciti interesse. Tuttavia, ciò che è avvenuto riguarda soltanto la dichiarazione di incostituzionalità di una parte della legge n. 335/1995 (la cosiddetta riforma Dini).
Nello specifico, la Consulta ha ritenuto illegittimo l’articolo 1, comma 6, che negava le maggiorazioni sociali e l’integrazione al minimo ai soggetti che, pur essendo invalidi e titolari di prestazioni previdenziali, non avevano contributi versati prima del 1996.
Differenti prestazioni e differenti invalidi, ecco perché l’aumento delle pensioni non è per tutti
Il limite imposto dalla riforma Dini riguardava tutti i cosiddetti contributivi puri, cioè coloro che hanno versato il primo contributo dopo il 31 dicembre 1995.
Non erano esclusi solo gli invalidi, ma tutti i contribuenti con questa anzianità assicurativa. La Consulta ha stabilito che, per gli invalidi titolari di prestazioni previdenziali, tale esclusione rappresentava una disparità di trattamento incostituzionale.
È bene sottolineare che la sentenza riguarda gli assegni ordinari di invalidità (prestazioni previdenziali con requisito contributivo) e non le prestazioni assistenziali come la pensione di invalidità civile o l’indennità di accompagnamento, che non hanno nulla a che vedere con i contributi versati.
Ecco le conclusioni e cosa fare per evitare false illusioni
In sintesi, solo alcuni invalidi potranno beneficiare degli effetti della sentenza della Corte Costituzionale: in particolare i titolari di prestazioni contributive che, pur non avendo contributi versati prima del 1996, ora potranno chiedere l’integrazione al minimo.
Per loro viene meno il vincolo che impediva di raggiungere circa 603 euro mensili (importo della pensione minima).
Gli altri invalidi, invece, non vedranno alcun cambiamento: chi percepisce solo trattamenti assistenziali rimarrà escluso da questo beneficio.
Va ricordato, inoltre, che i contributivi puri incontrano già oggi ulteriori difficoltà: ad esempio, non possono accedere alla pensione di vecchiaia a 67 anni con 20 anni di contributi se non raggiungono almeno l’importo dell’assegno sociale (pari a 538,69 euro al mese nel 2025).
