Il cambio tra euro e dollaro è risalito fino al 14% dall’inizio dell’anno, portandosi ai massimi dal 2021. Tendenzialmente, si tratta di una buona notizia per l’Eurozona e cattiva per gli Stati Uniti. Per noi le importazioni da questi ultimi stanno diventando meno costose, per i consumatori americani le importazioni dalle nostre imprese stanno rincarando. E tutto questo al netto della questione dazi, che non farà che accentuare i costi per la superpotenza mondiale. C’è il rovescio della medaglia: le nostre esportazioni diventano meno competitive, mentre le imprese americane riescono a vendere con maggiore facilità.
Cambio euro su, inflazione giù
Gli effetti di un cambio dell’euro più forte non si limitano alla bilancia commerciale. Si traducono in una riduzione dell’inflazione, spingendo la Banca Centrale Europea (BCE) a tagliare i tassi di interesse o almeno a tenerli bassi più a lungo.
E questo a sua volta sostiene i consumi interni, oltre agli investimenti. Diciamo che il “super euro” riequilibra l’economia a favore della domanda interna dopo anni in cui essa si è retta essenzialmente sulle esportazioni.
Tra le altre cose, interessi più bassi aumentano i margini di manovra dei governi nell’offrire sostegno alle rispettive economie, liberando decimali di punto di Pil. Sul piano storico, però, il cambio dell’euro resta ben lontano dai massimi storici toccati nell’estate del 2008 a 1,60. La data non è casuale. Quell’estate si sarebbe conclusa nel peggiore dei modi, ossia con il crac di Lehman Brothers. Si scatenò l’inferno sui mercati finanziari di tutto il mondo. L’economia globale precipitò immediatamente nella recessione e i capitali fuggirono in direzione dei “porti sicuri” come il dollaro, l’oro e il franco svizzero.
Ritorno silente al 2008?
Pensate che in appena quattro mesi il cambio dell’euro perse il 20% contro il biglietto verde. Adesso, però, il paradigma sembrerebbe almeno in parte mutato. E’ la moneta unica ad ispirare fiducia, pur con tutti i limiti che la caratterizzano. Non sta scalzando il dollaro come valuta di riserva mondiale, ma gli investitori da qualche mese iniziano a convincersi che sia stata fin troppo bistrattata in questi anni. Meno di tre anni fa, ad esempio, scendeva ai minimi dal 2022 fin sotto la parità.
Cosa accadrebbe se il cambio dell’euro si riportasse là dove tutto veniva interrotto dalla crisi dei mutui subprime? Un apprezzamento del 35% sarebbe di portata storica, pur non una novità. Avvenne proprio nei primi anni Duemila tra il 2003 e il 2008. Ci volle un lustro, dunque. E partendo dai minimi di 0,81 del 2001, l’apprezzamento fu superiore al 95% in sette anni. La velocità con cui il cambio si apprezza, impatta sui livelli d’inflazione. Sta di fatto che in un contesto di rafforzamento per l’euro l’inflazione, ceteris paribus, tende a contrarsi insieme ai tassi di interesse e ai rendimenti sovrani e corporate.
Economia meno legate alle esportazioni, ma più solida
Un cambio dell’euro atteso più forte negli anni successivi può amplificare l’attrazione dei capitali esteri in cerca di redditività.
E anche questo elemento potenzierebbe il tasso di crescita della nostra economia. Per quanto a pagarne il prezzo sarebbero le nostre esportazioni, nel complesso è sempre bene avere una valuta che si rafforza, anziché una che si deprezza. Forse stiamo riavvolgendo semplicemente il nastro della storia per ripartire da quando tutto nell’Eurozona iniziò ad andare allo scatafascio. E se le colpe sarebbero state interne all’area, quelle iniziali furono tutte e soltanto di matrice yankee.
giuseppe.timpone@investireoggi.it