Quando si acquista un’opzione “call” o “put”, pagando il relativo premio alla controparte, si ottiene la facoltà rispettivamente di comprare o di vendere un quantitativo di titoli a un prezzo dato (“strike price”) e a una certa scadenza. L’opzione sarà esercitata per i casi, in cui essa risulti conveniente, mentre quando ciò non si ha, il titolare non la esercita e perde al massimo il premio versato, ma almeno non incorre in ulteriori perdite. In generale, quando lo “strike price” o prezzo d’esercizio del titolo sottostante risulta alla scadenza prefissata inferiore a quello vigente sul mercato, conviene esercitare la facoltà di acquisto di un’opzione “call”, mentre se esso risulta superiore, sarà conveniente lasciar stare e non provvedere all’esercizio.

Caso opposto per i titolare di un’opzione “put”: quando lo “strike price” è inferiore al prezzo di mercato, non conviene esercitare la facoltà di cui si dispone, mentre quando esso è superiore al prezzo vigente sul mercato, l’esercizio è conveniente. Questo, perché chi possiede un’opzione “call” trova conveniente acquistare il titolo a un prezzo inferiore a quello di mercato, potendolo così rivendere anche subito, realizzando una plusvalenza. Chi possiede un’opzione “put”, invece, trova conveniente vendere il titolo a un prezzo superiore a quello di mercato alla scadenza data. In entrambi i casi, poi, l’opzione andrebbe esercitata anche quando la convenienza non si ha in senso stretto, ovvero quando la differenza, rispettivamente negativa e positiva, tra “strike price” e prezzo di mercato è minore del premio versato per ottenere la facoltà di esercitare il contratto su ciascun titolo.

Esempio pratico

Vediamo meglio come funziona. Immaginiamo che un investitore acquisti un’opzione “call” con sottostanti 1.000 azioni, concordando con la controparte la facoltà di esercizio dell’acquisto a distanza di 60 giorni e a un prezzo cadauno (“strike”) di 10 euro ciascuna, versando per ogni titolo 0,50 euro.

A distanza di due mesi, dovrà decidere se esercitare o meno l’opzione. A quel punto, verificherà il prezzo di mercato delle azioni e notando che esso è pari a 10,80 euro, decide di farlo, sborsando 10.000 euro, ma rivendendo i titoli sul mercato a 10.800 euro e realizzando così una plusvalenza netta di 300 euro, frutto della differenza tra il prezzo di mercato e quello negoziato, moltiplicato per la quantità dei titoli su cui si è esercitata l’opzione e dedotto il costo del premio versato (in questo caso, di 500 euro, ovvero di 0,50 euro x 1.000 azioni). Se ipotizzassimo che il prezzo di mercato fosse di 10,30 euro, l’investitore sborserebbe sempre 10.000 euro, esercitando la facoltà di acquisto, ne intascherebbe 10.300, rivendendo le 1.000 azioni sul mercato, ma la plusvalenza netta sarebbe negativa di 200 euro, perché il costo del premio versato (500 euro) è stato superiore ai 300 euro di margine lordo realizzato. Tuttavia, resta ugualmente conveniente l’esercizio dell’opzione, altrimenti la perdita ammonterebbe esattamente a 500 euro, mentre il basso margine realizzato consente di abbatterla almeno parzialmente.