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Orizzonte48
Le Istituzioni riflettono la società o esse "conformano" la società e ne inducono la struttura? In democrazia, la risposta dovrebbe essere la prima. Ma c’è sempre l'ombra della seconda...il "potere" tende a perpetuarsi, forzando le regole che, nello Stato "democratico di diritto" ne disciplinano la legittimazione. Ultimamente, poi, la seconda si profila piuttosto...ingombrante, nella sintesi "lo vuole l'Europa". Ma non solo. Per capire il fenomeno, useremo la analisi economica del diritto.
il ragionamento espertologico: non ce lo possiamo più permettere. Dobbiamo, oggi più che mai, vivere piuttosto all'altezza delle nostre possibilità. Di cittadini italiani che rivendicano la legalità costituzionale senza accettare più inganni e manipolazioni mediatiche.
(Nelle note, che invito a verificare, primeggia Lelio Basso: un pensatore con cui siamo tutti in debito. Rendere omaggio al suo pensiero è una "necessità", se crediamo ancora nella Costituzione)
“A volte gli uomini sono padroni del loro destino;
la colpa, caro Bruto, non è delle stelle, ma nostra, che ne siamo dei subalterni”
(W. Shakespeare, Giulio Cesare – Cassio: atto I, scena II)
LA SOVRANITA’ DEMOCRATICA COSTITUZIONALE NEL NAUFRAGIO DELL’OCEANO ORDOLIBERISTA (la dissoluzione finale)
1. Negli anni ’50 Lelio Basso, interrogandosi su quali fossero i problemi ed i limiti dello sviluppo democratico nel nostro Paese, ci avvertiva che “Una democrazia può sussistere solo in un paese in cui l’intiera collettività sia sostanzialmente d’accordo sui princìpi che reggono l’ordine politico-sociale esistente, giacché, se vi fosse un contrasto profondo, un radicale disaccordo, se mancasse unità di linguaggio e di spirito, non sarebbe pensabile un alternarsi di opposti partiti al governo della cosa pubblica. In altre parole, perché sussista un regime democratico, è necessario ché vi sia generale accordo sui principi fondamentali, e che il disaccordo cada soltanto su particolari aspetti e indirizzi di politica. Nessuna democrazia potrebbe rimaner sana se i princìpi dell’azione divengono così diversi fra le diverse classi della società, perché è l’essenza stessa della democrazia che i principì della azione debbano essere posseduti in comune da tutte le classi che contano”[1].
Basso si riferiva ovviamente non a princìpi qualsiasi, ma ai princìpi fondamentali sanciti nella Costituzione ed alla cui redazione lui stesso partecipò.
A tutta prima, e dando per assodato che quei princìpi abbiano un significato inequivoco per come concepiti dai Costituenti, la precisazione suddetta potrebbe sembrare pleonastica; tuttavia, seguendo un approccio fenomenologico, è possibile constatare che non lo è affatto.
E così l’atavica ignoranza o l’incomprensione sopravvenuta (entrambe rigorosamente pilotate ed indotte tanto da penetrare nell’inconscio profondo) di quei “principi che reggono l’ordine politico-sociale esistente” causano sempre più sovente sconfinamenti nel regno della patafisica giuridica [2], del tutto funzionale agli assetti dell’ordoliberismo neo-feudale.
2. Nella fattispecie, ci tocca prendere le mosse da una recente sentenza emessa dal Tribunale di Genova ed avente ad oggetto il ristoro per equivalente richiesto da una cittadina per lesione del proprio diritto di voto avvenuta con riferimento alle elezioni politiche successive all’entrata in vigore della L. 270/2005 (c.d. legge Porcellum) e sino alla data della domanda o della pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 1/2014 [3].
L’attrice addebitava alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed al Ministero dell’Interno la responsabilità derivante dalla promulgazione di una legge elettorale contraria ai precetti costituzionali, legge che avrebbe impedito all’interessata di esercitare il proprio diritto nella modalità del voto “personale, uguale, libero e segreto” (art. 48, comma II, Cost.) e “a suffragio universale e diretto” (artt. 56, comma I, e 58, comma I, Cost.), determinando in tal modo la violazione dell’art. 2 Cost..
Nello specifico, l’attrice non avrebbe quindi potuto esprimere la propria preferenza per un singolo candidato, sulla base del fatto che la legge elettorale dichiarata incostituzionale affidava agli organi di partito la compilazione delle liste dei candidati ed il relativo ordine, e, inoltre, la previsione del c.d. premio di maggioranza avrebbe violato il diritto all’uguaglianza del proprio voto rispetto a quello di ogni altro cittadino.
La richiesta è stata in modo incredibile disattesa dal giudice sulla base, soprattutto, delle seguenti argomentazioni:
“ … si osserva che l’attrice fonda la propria domanda sulla asserita lesione del diritto di voto come costituzionalmente disegnato e allega un danno di natura non patrimoniale, risarcibile laddove, come nel caso di specie, vi sia stata una violazione di un bene inviolabile previsto e protetto da una norma di rango costituzionale. L’art. 2 Cost. stabilisce che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la propria personalità”. Basandosi sulla lettera della predetta disposizione, può ritenersi che l’inviolabilità in esame si riferisca all’immanenza o alla vicinanza di taluni interessi al nucleo primario ed essenziale dell’individuo. Sul punto, occorre preliminarmente valutare la natura del diritto in questione, al fine di stabilire se possa essere ricompreso tra i c.d. “diritti inviolabili” della persona onde individuare poi la tutela ad esso riconducibile.
L’attribuzione della qualifica dell’inviolabilità ai diritti politici, quale è il diritto di voto previsto e tutelato dall’art. 48 Cost., rappresenta una questione controversa, in quanto è necessario che tali diritti siano bilanciati con specifici interessi pubblici e sociali, oltre ad essere sottoposti a determinate condizioni di esercizio stabilite dalla legge o dalla stessa Costituzione. Se è vero che i diritti inviolabili sono anzitutto diritti “umani”, cioè dell’uomo in quanto tale e non, ad esempio, in quanto cittadino, i diritti politici – che tali sono in quanto il soggetto titolare appartiene ad una comunità politica, e non semplicemente al genere umano – non dovrebbero farsi rientrare nella categoria delle situazioni giuridiche inviolabili riconosciute e protette dall’art. 2 Cost..
Il diritto di voto personale, eguale e libero, la cui lesione è dedotta dall’attrice nel presente giudizio pertanto, non può essere ricompreso tra i diritti inviolabili di cui alla sopracitata disposizione costituzionale, proprio in considerazione della sua natura non strettamente “personale”.
Non è esagerato sostenere che il riportato passaggio motivazionale – per le conseguenze che ne derivano - rappresenti un tipico esempio di “precomprensione”, ovvero di anticipazione pregiudiziale del senso delle norme, “… discendendo da un condizionamento politico, psicologico, sociale – inteso come riflesso degli assetti dominanti sulle “ragioni del comprendere del singolo interprete”; come tale, la precomprensione dissimula “operazioni apparentemente logiche ma viziate, più o meno inconsciamente, da pregiudizi e presupposti che, pur personali, sono spesso il recepimento acritico di un “comune sentire” proprio delle forze sociali dominanti; essa perciò può condurre a interpretazioni che “vulnerano” la giustizia, l’equità … la verità dinamica la cui ricerca dà senso al diritto” [4]. Vediamo allora di venirne a capo.
3. La Costituzione italiana, com’è noto (o come dovrebbe esserlo), nel sancire che l’Italia è una Repubblica “democratica” fondata sul lavoro” (art. 1, comma I), attribuisce il massimo rilievo al principio della sovranità popolare (art. 1, comma II).
All’accoglimento del principio della sovranità popolare – nell’ambito di un sistema di democrazia rappresentativa come quella italiana - non poteva che accompagnarsi come corollario naturale l’elettorato attivo, come diritto spettante a ciascun cittadino quale titolare di una “particella di sovranità” (secondo la nota formulazione rousseauiana) di concorrere alla vita repubblicana. Il collegamento diretto e necessario tra sovranità popolare e diritto di voto (come modo imprescindibile di esercizio della prima) emerge in modo inconfutabile dai lavori della Costituente.
Già la Relazione al Progetto di Costituzione presentata alla Presidenza dell'Assemblea il 6 febbraio 1947, nell’avvertire che “Non si comprende una costituzione democratica, se non si richiama alla fonte della sovranità, che risiede nel popolo: tutti i poteri emanano dal popolo e sono esercitati nelle forme e nei limiti della costituzione e delle leggi”, riportava quanto segue “Deve bensì rimanere fermissimo il principio della sovranità popolare. Cadute le combinazioni ottocentesche con la sovranità regia, la sovranità spetta tutta al popolo” con l’importante precisazione che “…La sovranità del popolo si esplica, mediante il voto, nell'elezione del Parlamento e nel referendum…”.
Nelle varie sedute della Seconda Sottocommissione che avrebbero portato alla scrittura dell’attuale art. 48 Cost., il tema dello stretto legame tra diritto di voto e sovranità viene affrontato a più riprese dai Costituenti.
Nella seduta del 12 settembre 1946, l’on. Conti, quale Presidente vicario, comunicava che “…dai contatti presi con la prima Sottocommissione per conoscere come questa abbia trattato la questione dell'elettorato attivoe del suffragio popolare, è risultato che essa non ha ancora preso in merito alcuna decisione. In una relazione dell'onorevole Bassosui principî dei diritti politici si propone, tra l'altro, l'approvazione di un articolo 1 del seguente tenore:
«La sovranità popolare si esercita attraverso la elezione degli organi costituzionali dello Stato, mediante suffragio universale, libero, segreto, personale ed eguale. Tutti i cittadini concorrono all'esercizio di questo diritto tranne coloro che ne sono legalmente privati o che volontariamente non esercitino un'attività produttiva»”.
Preoccupazione esternata ancor prima dall’on. Lussu il quale, nella seduta del 10 settembre 1946, faceva presente che “allorché si tratterà di compilare il testo definitivo… la Costituzione dovrebbe contenere anzitutto un accenno alla sovranità popolare”.
Nella seduta del 19 maggio 1947, l’on. Caristia affermava a sua volta “Democrazia e repubblica sono i pilastri della nuova Costituzione, e la democrazia, nel suo aspetto politico, ch'è quello sostanziale, si attua attraverso il godimento e l'esercizio del diritto elettorale attivo…”.
Nella seduta del 20 maggio 1947 l’on. Piemonte aveva altresì modo di ribadire che “l'espressione del voto politico è un atto di sovranità”, mentre nella seduta del giorno successivo l’on. Canepa spiegava chiaramente che il cittadino partecipa alla sovranità “coll'esercizio del voto”.
La ragione per cui nella redazione dell’attuale art. 48 Cost. non si fece poi accenno alla sovranità è ricavabile dalle parole dell’on. Tosato il quale, concordando con il presidente Terracini, affermava che “… quando si dice che sono eleggibili e sono elettori tutti i cittadini, ecc., è implicito in ciò il principio della sovranità popolare…” [5].
Se le parole dei Costituenti hanno ancora un minimo di senso compiuto, dalle stesse si ricava che l’elettorato attivo costituisce il diritto di ogni cittadino di concorrere col voto alla formazione della volontà nazionale, il diritto di esercitare attraverso il voto la propria parte di sovranità.
Tale diritto previsto dall’art. 48 Cost. è perciò annoverato dalla dottrina nella categoria dei “diritti soggettivi pubblici” e, più specificamente, costituisce uno ius activae civitatis[6] che vede, cioè, il cittadino titolare di una pretesa a partecipare alle elezioni degli organi rappresentativi dello Stato nonché a votare nei vari referendum. [7], una posizione giuridica soggettiva garantita nei confronti dello stesso legislatore [8]. Non può parlarsi, in definitiva, di “sovranità” democratica senza il diritto soggettivo assicurato ad ogni cittadino di poterla esercitare in concreto. E la sovranità si esercita in concreto, almeno in fase iniziale, mediante il voto.
Le Istituzioni riflettono la società o esse "conformano" la società e ne inducono la struttura? In democrazia, la risposta dovrebbe essere la prima. Ma c’è sempre l'ombra della seconda...il "potere" tende a perpetuarsi, forzando le regole che, nello Stato "democratico di diritto" ne disciplinano la legittimazione. Ultimamente, poi, la seconda si profila piuttosto...ingombrante, nella sintesi "lo vuole l'Europa". Ma non solo. Per capire il fenomeno, useremo la analisi economica del diritto.
il ragionamento espertologico: non ce lo possiamo più permettere. Dobbiamo, oggi più che mai, vivere piuttosto all'altezza delle nostre possibilità. Di cittadini italiani che rivendicano la legalità costituzionale senza accettare più inganni e manipolazioni mediatiche.
(Nelle note, che invito a verificare, primeggia Lelio Basso: un pensatore con cui siamo tutti in debito. Rendere omaggio al suo pensiero è una "necessità", se crediamo ancora nella Costituzione)
“A volte gli uomini sono padroni del loro destino;
la colpa, caro Bruto, non è delle stelle, ma nostra, che ne siamo dei subalterni”
(W. Shakespeare, Giulio Cesare – Cassio: atto I, scena II)
LA SOVRANITA’ DEMOCRATICA COSTITUZIONALE NEL NAUFRAGIO DELL’OCEANO ORDOLIBERISTA (la dissoluzione finale)
1. Negli anni ’50 Lelio Basso, interrogandosi su quali fossero i problemi ed i limiti dello sviluppo democratico nel nostro Paese, ci avvertiva che “Una democrazia può sussistere solo in un paese in cui l’intiera collettività sia sostanzialmente d’accordo sui princìpi che reggono l’ordine politico-sociale esistente, giacché, se vi fosse un contrasto profondo, un radicale disaccordo, se mancasse unità di linguaggio e di spirito, non sarebbe pensabile un alternarsi di opposti partiti al governo della cosa pubblica. In altre parole, perché sussista un regime democratico, è necessario ché vi sia generale accordo sui principi fondamentali, e che il disaccordo cada soltanto su particolari aspetti e indirizzi di politica. Nessuna democrazia potrebbe rimaner sana se i princìpi dell’azione divengono così diversi fra le diverse classi della società, perché è l’essenza stessa della democrazia che i principì della azione debbano essere posseduti in comune da tutte le classi che contano”[1].
Basso si riferiva ovviamente non a princìpi qualsiasi, ma ai princìpi fondamentali sanciti nella Costituzione ed alla cui redazione lui stesso partecipò.
A tutta prima, e dando per assodato che quei princìpi abbiano un significato inequivoco per come concepiti dai Costituenti, la precisazione suddetta potrebbe sembrare pleonastica; tuttavia, seguendo un approccio fenomenologico, è possibile constatare che non lo è affatto.
E così l’atavica ignoranza o l’incomprensione sopravvenuta (entrambe rigorosamente pilotate ed indotte tanto da penetrare nell’inconscio profondo) di quei “principi che reggono l’ordine politico-sociale esistente” causano sempre più sovente sconfinamenti nel regno della patafisica giuridica [2], del tutto funzionale agli assetti dell’ordoliberismo neo-feudale.
2. Nella fattispecie, ci tocca prendere le mosse da una recente sentenza emessa dal Tribunale di Genova ed avente ad oggetto il ristoro per equivalente richiesto da una cittadina per lesione del proprio diritto di voto avvenuta con riferimento alle elezioni politiche successive all’entrata in vigore della L. 270/2005 (c.d. legge Porcellum) e sino alla data della domanda o della pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 1/2014 [3].
L’attrice addebitava alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed al Ministero dell’Interno la responsabilità derivante dalla promulgazione di una legge elettorale contraria ai precetti costituzionali, legge che avrebbe impedito all’interessata di esercitare il proprio diritto nella modalità del voto “personale, uguale, libero e segreto” (art. 48, comma II, Cost.) e “a suffragio universale e diretto” (artt. 56, comma I, e 58, comma I, Cost.), determinando in tal modo la violazione dell’art. 2 Cost..
Nello specifico, l’attrice non avrebbe quindi potuto esprimere la propria preferenza per un singolo candidato, sulla base del fatto che la legge elettorale dichiarata incostituzionale affidava agli organi di partito la compilazione delle liste dei candidati ed il relativo ordine, e, inoltre, la previsione del c.d. premio di maggioranza avrebbe violato il diritto all’uguaglianza del proprio voto rispetto a quello di ogni altro cittadino.
La richiesta è stata in modo incredibile disattesa dal giudice sulla base, soprattutto, delle seguenti argomentazioni:
“ … si osserva che l’attrice fonda la propria domanda sulla asserita lesione del diritto di voto come costituzionalmente disegnato e allega un danno di natura non patrimoniale, risarcibile laddove, come nel caso di specie, vi sia stata una violazione di un bene inviolabile previsto e protetto da una norma di rango costituzionale. L’art. 2 Cost. stabilisce che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la propria personalità”. Basandosi sulla lettera della predetta disposizione, può ritenersi che l’inviolabilità in esame si riferisca all’immanenza o alla vicinanza di taluni interessi al nucleo primario ed essenziale dell’individuo. Sul punto, occorre preliminarmente valutare la natura del diritto in questione, al fine di stabilire se possa essere ricompreso tra i c.d. “diritti inviolabili” della persona onde individuare poi la tutela ad esso riconducibile.
L’attribuzione della qualifica dell’inviolabilità ai diritti politici, quale è il diritto di voto previsto e tutelato dall’art. 48 Cost., rappresenta una questione controversa, in quanto è necessario che tali diritti siano bilanciati con specifici interessi pubblici e sociali, oltre ad essere sottoposti a determinate condizioni di esercizio stabilite dalla legge o dalla stessa Costituzione. Se è vero che i diritti inviolabili sono anzitutto diritti “umani”, cioè dell’uomo in quanto tale e non, ad esempio, in quanto cittadino, i diritti politici – che tali sono in quanto il soggetto titolare appartiene ad una comunità politica, e non semplicemente al genere umano – non dovrebbero farsi rientrare nella categoria delle situazioni giuridiche inviolabili riconosciute e protette dall’art. 2 Cost..
Il diritto di voto personale, eguale e libero, la cui lesione è dedotta dall’attrice nel presente giudizio pertanto, non può essere ricompreso tra i diritti inviolabili di cui alla sopracitata disposizione costituzionale, proprio in considerazione della sua natura non strettamente “personale”.
Non è esagerato sostenere che il riportato passaggio motivazionale – per le conseguenze che ne derivano - rappresenti un tipico esempio di “precomprensione”, ovvero di anticipazione pregiudiziale del senso delle norme, “… discendendo da un condizionamento politico, psicologico, sociale – inteso come riflesso degli assetti dominanti sulle “ragioni del comprendere del singolo interprete”; come tale, la precomprensione dissimula “operazioni apparentemente logiche ma viziate, più o meno inconsciamente, da pregiudizi e presupposti che, pur personali, sono spesso il recepimento acritico di un “comune sentire” proprio delle forze sociali dominanti; essa perciò può condurre a interpretazioni che “vulnerano” la giustizia, l’equità … la verità dinamica la cui ricerca dà senso al diritto” [4]. Vediamo allora di venirne a capo.
3. La Costituzione italiana, com’è noto (o come dovrebbe esserlo), nel sancire che l’Italia è una Repubblica “democratica” fondata sul lavoro” (art. 1, comma I), attribuisce il massimo rilievo al principio della sovranità popolare (art. 1, comma II).
All’accoglimento del principio della sovranità popolare – nell’ambito di un sistema di democrazia rappresentativa come quella italiana - non poteva che accompagnarsi come corollario naturale l’elettorato attivo, come diritto spettante a ciascun cittadino quale titolare di una “particella di sovranità” (secondo la nota formulazione rousseauiana) di concorrere alla vita repubblicana. Il collegamento diretto e necessario tra sovranità popolare e diritto di voto (come modo imprescindibile di esercizio della prima) emerge in modo inconfutabile dai lavori della Costituente.
Già la Relazione al Progetto di Costituzione presentata alla Presidenza dell'Assemblea il 6 febbraio 1947, nell’avvertire che “Non si comprende una costituzione democratica, se non si richiama alla fonte della sovranità, che risiede nel popolo: tutti i poteri emanano dal popolo e sono esercitati nelle forme e nei limiti della costituzione e delle leggi”, riportava quanto segue “Deve bensì rimanere fermissimo il principio della sovranità popolare. Cadute le combinazioni ottocentesche con la sovranità regia, la sovranità spetta tutta al popolo” con l’importante precisazione che “…La sovranità del popolo si esplica, mediante il voto, nell'elezione del Parlamento e nel referendum…”.
Nelle varie sedute della Seconda Sottocommissione che avrebbero portato alla scrittura dell’attuale art. 48 Cost., il tema dello stretto legame tra diritto di voto e sovranità viene affrontato a più riprese dai Costituenti.
Nella seduta del 12 settembre 1946, l’on. Conti, quale Presidente vicario, comunicava che “…dai contatti presi con la prima Sottocommissione per conoscere come questa abbia trattato la questione dell'elettorato attivoe del suffragio popolare, è risultato che essa non ha ancora preso in merito alcuna decisione. In una relazione dell'onorevole Bassosui principî dei diritti politici si propone, tra l'altro, l'approvazione di un articolo 1 del seguente tenore:
«La sovranità popolare si esercita attraverso la elezione degli organi costituzionali dello Stato, mediante suffragio universale, libero, segreto, personale ed eguale. Tutti i cittadini concorrono all'esercizio di questo diritto tranne coloro che ne sono legalmente privati o che volontariamente non esercitino un'attività produttiva»”.
Preoccupazione esternata ancor prima dall’on. Lussu il quale, nella seduta del 10 settembre 1946, faceva presente che “allorché si tratterà di compilare il testo definitivo… la Costituzione dovrebbe contenere anzitutto un accenno alla sovranità popolare”.
Nella seduta del 19 maggio 1947, l’on. Caristia affermava a sua volta “Democrazia e repubblica sono i pilastri della nuova Costituzione, e la democrazia, nel suo aspetto politico, ch'è quello sostanziale, si attua attraverso il godimento e l'esercizio del diritto elettorale attivo…”.
Nella seduta del 20 maggio 1947 l’on. Piemonte aveva altresì modo di ribadire che “l'espressione del voto politico è un atto di sovranità”, mentre nella seduta del giorno successivo l’on. Canepa spiegava chiaramente che il cittadino partecipa alla sovranità “coll'esercizio del voto”.
La ragione per cui nella redazione dell’attuale art. 48 Cost. non si fece poi accenno alla sovranità è ricavabile dalle parole dell’on. Tosato il quale, concordando con il presidente Terracini, affermava che “… quando si dice che sono eleggibili e sono elettori tutti i cittadini, ecc., è implicito in ciò il principio della sovranità popolare…” [5].
Se le parole dei Costituenti hanno ancora un minimo di senso compiuto, dalle stesse si ricava che l’elettorato attivo costituisce il diritto di ogni cittadino di concorrere col voto alla formazione della volontà nazionale, il diritto di esercitare attraverso il voto la propria parte di sovranità.
Tale diritto previsto dall’art. 48 Cost. è perciò annoverato dalla dottrina nella categoria dei “diritti soggettivi pubblici” e, più specificamente, costituisce uno ius activae civitatis[6] che vede, cioè, il cittadino titolare di una pretesa a partecipare alle elezioni degli organi rappresentativi dello Stato nonché a votare nei vari referendum. [7], una posizione giuridica soggettiva garantita nei confronti dello stesso legislatore [8]. Non può parlarsi, in definitiva, di “sovranità” democratica senza il diritto soggettivo assicurato ad ogni cittadino di poterla esercitare in concreto. E la sovranità si esercita in concreto, almeno in fase iniziale, mediante il voto.