un,dos,tres,un pasito bailante by mototopo (1 Viewer)

mototopo

Forumer storico
ALLA LIRA: LA BILANCIA COMMERCIALE ITALIANA E I VANTAGGI DELLA SVALUTAZIONE



Mentre continua imperterrita e sempre uguale se stessa la telenovela strappalacrime dell’eurozona, animata soprattutto dalla fuga “tecnicamente possibile” della Grecia e dalle successive smentite ipocrite e false condite da romanzesche necessità di rimanere tutti insieme appassionatamente perché “uniti siamo più forti”, qualcosa si muove nell’economia reale che dovrebbe farci riflettere sui motivi per cui oggi come oggi l’uscita dall’euro dell'Italia e il ritorno alla nostra moneta nazionale, la lira, sarebbe per il nostro paese la scelta economicamente più conveniente. Anticipiamo subito che quella che segue è una trattazione tecnica, fredda, asettica dove vengono sfrondati tutti quegli elementi irrazionali e inconsci basati sulle paure per il futuro, l’incertezza e la precarietà che tanta importanza poi hanno sulla gestione pratica dell’economia. Per intenderci, eliminate le visioni catastrofiste che non hanno alcun fondamento scientifico, che dipingono l’Italia della lira travolta da uragani di svalutazione e tempeste di inflazione, e le discussioni da bar del tipo “io con l’euro in tasca mi sento più sicuro” o “con la nostra liretta non possiamo combattere contro i cinesi”, cerchiamo di capire insieme i motivi per cui un politico italiano onesto intellettualmente (ma anche penalmente) e che abbia a cuore la sorte del suo paese dovrebbe recarsi oggi stesso (ma poteva farlo anche ieri) a Bruxelles a dire: “OK, è stato bello. Ci avete provato a distruggere il popolo e l’economia italiana e ci abbiamo provato a darvi una mano a distruggerli, ma questi italiani sono cocciuti e resistono. Quindi noi ci ritiriamo dalla guerra dei trent’anni (e più, visto che è iniziata nel lontano 1979, con l’ingresso dell’Italia nello SME) e ritorniamo a fare politica economica attiva (e non passiva: il classico pigiamento dei bottoni in parlamento perché “ce lo chiede Europa!”) nel nostro Bel Paese. Buona fortuna a tutti e amici come prima”.




Questa considerazione iniziale prende spunto principalmente dall’andamento di una variabile economica che è fondamentale per il benessere e la sostenibilità a medio e lungo termine di un sistema paese: la bilancia commerciale. Che cos’è la bilancia commerciale? La bilancia commerciale è un elemento della contabilità nazionale che misura e registra il flusso di importazioni ed esportazioni di beni e servizi di un certo paese da e verso l’estero. Quando il saldo della bilancia commerciale è positivo significa che il paese sta esportando beni e servizi più di quanto ne importa e che nel paese stanno entrando più capitali di quanti ne escono (con i quali poi si possono pagare successive importazioni, rimborsare i debiti contratti in passato con l’estero, acquistare titoli o fornire prestiti ai residenti stranieri). La bilancia commerciale però è solo una parte del flusso finanziario totale che attraversa in entrata e in uscita il paese, perché bisogna mettere in conto anche le rendite da capitale (gli interessi sugli investimenti finanziari incrociati fra il paese in questione e il resto del mondo) e i redditi da lavoro (i profitti delle partecipazioni in società per azioni nazionali o delle aziende straniere portati all’estero e le rimesse che gli emigranti inviano nei loro paesi d’origine).





La bilancia commerciale più la rendicontazione in entrata e in uscita degli interessi da capitale e i redditi da lavoro formano il saldo delle partite correnti (current account per gli esterofili) che è una delle due parti principali della bilancia dei pagamenti con l’estero di un paese, da cui dipende quasi interamente il tasso di cambio della moneta nazionale quando inserita in un sistema di cambi flessibili. L’altra parte si chiama conto finanziario (financial account), che registra le modalità o i corrispettivi con cui vengono finanziati i flussi di merci, servizi e capitali scambiati con l’estero: moneta contante, investimenti diretti e di portafoglio, acquisto di titoli, prestiti o debiti bancari, attività in valuta estera della banca centrale.




Per completezza diciamo pure che in mezzo a questi due prospetti, c’è un’altra partita, il conto capitale (capital account), in genere trascurabile dal punto vista contabile ma non da quello strategico e geopolitico, che registra i trasferimenti unilaterali in conto capitale non compresi nei due schemi precedenti e privi di un immediato collegamento con l’attività produttiva del paese: donazioni, successioni, compravendite di terreni e risorse del sottosuolo, risarcimenti e finanziamenti a fondo perduto, brevetti, concessioni di licenze. Per chi ha una certa dimestichezza con la contabilità aziendale, possiamo dire che considerando un intero sistema paese (somma del settore pubblico e del settore privato) alla stregua di un’azienda, il saldo delle partite correnti corrisponde al conto economico da cui si forma l’utile o la perdita di esercizio (vendite, costi delle materie prime e dei semilavorati, scorte di magazzino, stipendi, ammortamenti, plusvalenze e minusvalenze finanziarie, imposte), mentre il conto finanziario e il conto capitale rappresentano insieme la parte di bilancio chiamata stato patrimoniale in cui vengono conteggiati tutti gli impieghi e le fonti con cui abbiamo finanziato la nostra attività (depositi monetari, prestiti, debiti, investimenti mobiliari e immobiliari, licenze, brevetti, avviamento, capitale proprio versato dagli azionisti, riserve). Alla fine, siccome anche nella stesura della bilancia dei pagamenti viene utilizzato il metodo della partita doppia, il saldo aggregato del conto corrente, capitale e finanziario deve essere uguale a zero e l’unica variabile esterna che riesce a riequilibrare le due principali partite, equivalente all’utile o alla perdita di esercizio, è l’accumulo o l’utilizzo di riserve di valuta estera con cui la banca centrale riesce a compensare eventuali sbilanciamenti con il resto del mondo.




In pratica se in un certo periodo di tempo, dopo che sono avvenuti tutti i trasferimenti commerciali e finanziari fra il paese e il resto del mondo, i capitali che affluiscono nel paese sono superiori a quelli che defluiscono, la banca centrale accumulerà per forza di cose una certa quantità di riserve di valuta estera (con un conseguente aumento della domanda e un apprezzamento della moneta nazionale). Viceversa, se escono più capitali di quanti ne entrano, la banca centrale sarà costretta a bruciare parte delle sue riserve di valuta straniera con tutte le conseguenze che ciò comporta in termini di una maggiore offerta e deprezzamento della valuta nazionale. Con un’unica differenza sostanziale: se questo afflusso di capitali dall’estero serve per comprare beni o servizi nazionali noi avremo un accreditamento con l’estero (dato che possiamo successivamente utilizzare questi capitali per comprare prodotti di importazione, titoli esteri, azioni o intere aziende straniere), se invece i capitali stranieri vengono utilizzati dai non residenti per effettuare prestiti, acquistare titoli, azioni o intere aziende nazionali, avremo ovviamente un indebitamento con l’estero perché in un prossimo futuro dovremo corrispondere agli investitori stranieri il rimborso del capitale, gli interessi sui titoli, i dividendi sugli investimenti diretti o di portafoglio nelle nostre aziende nazionali. Ecco per quale motivo bisogna sempre distinguere in che modo affluiscono i capitali in un determinato paese, perché se il primo metodo basato principalmente sull’attività produttiva pone il paese in una posizione di vantaggio rispetto all’estero, il secondo invece alla lunga potrebbe rendere insostenibile il tasso di indebitamento e il debito estero accumulato dal nostro paese, che come sappiamo è la prima causa di fallimento di un intero sistema economico nazionale (formato, ripetiamo, dal settore pubblico e dal settore privato, e non dal solo settore pubblico come vogliono farci credere i tecnocrati europeisti e i menestrelli assoldati dal regime che puntano continuamente il dito contro il male assoluto del debito pubblico, dimenticando del tutto le maggiori afflizioni provocate da un eccesso di debito privato).




Periodicamente il saldo delle partite correnti ci informa in che modo stanno affluendo o defluendo i capitali dall’estero: se è positivo, significa che le esportazioni sono maggiori delle importazioni e questi nuovi capitali in ingresso stanno creando ricchezza finanziaria netta nel paese e un maggiore accreditamento nei confronti del resto del mondo, se invece è negativo, le esportazioni sono inferiori alle importazioni e i capitali stanno fuggendo dal paese creando le premesse di un maggiore impoverimento netto (nel caso la banca centrale sia costretta a bruciare parte delle riserve di valuta estera) o indebitamento del paese (nel caso questi capitali in fuga vengano poi utilizzati dagli investitori stranieri per effettuare prestiti ai residenti, acquistare titoli, comprare azioni o acquisire il controllo di maggioranza di intere aziende nazionali). Quindi le informazioni fornite dal saldo delle partite correnti sono fondamentali per conoscere lo stato di salute di un paese e non appena vi imbattete in uno di quegli strani personaggi che circolano a piede libero in Italia rivolto verso la Mecca in attesa dell’arrivo messianico dei capitali dall’estero, sappiate che avete di fronte o un ignorante (nel senso che ignora il funzionamento della bilancia dei pagamenti) o un farabutto (che conosce benissimo come funziona la bilancia dei pagamenti e consapevolmente vuole svendere o mettere in condizioni di disagio internazionale il nostro paese per un proprio tornaconto personale).




Per carità, una certa dose di investimenti esteri è fisiologica e positiva per il paese perché consente di mettere in moto attività e distribuire redditi altrimenti impossibili da finanziare con i soli capitali interni (soprattutto quando si tratta di nazioni arretrate, ricche di risorse umane e naturali non sfruttate, dotate di una moneta poco apprezzata all’estero: non è il caso dell’Italia dunque, che ha un tessuto produttivo abbastanza sviluppato e avviato, una discreta solidità finanziaria e patrimoniale, know-how, professionalità, competenze sufficienti per potere farcela da sola, almeno per il momento), ma far dipendere tutta l’economia di un paese dagli investimenti stranieri e dai cosiddetti “mercati” (vedi la tiritera meccanica e demagogica del fantoccio mercenario Monti e della sua cricca di briganti capeggiata da Bersani, Berlusconi, Casini, e dai sindacalisti da salotto televisivo e ansiosi di entrare in parlamento alla Camusso, Bonanni, Angeletti, Landini) significa mettere un cappio al collo al paese e stringerlo di più ogni anno che passa, fino al definitivo soffocamento per eccesso di debito estero (soprattutto nelle condizioni miserevoli in cui si trova adesso l’Italia, costretta ad operare con un moneta straniera come l’euro, alla stregua dell’Ecuador o dei paesi del Terzo Mondo).




Come accade con tutte le grandezze e le variabili più importanti studiate in macroeconomia (PIL, inflazione, disoccupazione, debito pubblico e privato, contabilità nazionale) ogni eccesso o difetto in uno o nell’altro verso porta sempre a uno squilibrio e ogni squilibrio deve essere poi riparato con operazioni straordinarie e non convenzionali, prima che si trasformi da temporaneo a permanente. E la bilancia dei pagamenti, l’indebitamento estero, il debito o credito estero cumulato che è la somma algebrica dei vari deficit o surplus di partite correnti che si succedono anno per anno (anche chiamato “Posizione degli Investimenti Internazionali Netti”, in inglese NIIP, “Net International Investment Position”) non fanno sicuramente eccezione a questa regola di buon governo dell’economia (ma anche norma di condotta della vita in generale, visto che comunemente si dice che “il troppo stroppia”).




Ma dopo avere fatto questa doverosa premessa sull’importanza cruciale in economia della bilancia dei pagamenti, veniamo al punto della nostra discussione: mentre in Italia imperversano la crisi, il calo dei consumi, il crollo della fiducia, la disoccupazione, è accaduto un miracolo che dimostra una volta di più come il nostro paese non sia ancora a livello di Terzo Mondo, malgrado tutti i tentativi esogeni ed endogeni di farlo diventare tale che si sono succeduti da trenta anni a questa parte. E con una gestione più sostenibile e razionale dei processi economici e finanziari, basata innanzitutto sul rifiuto dell’euro e sul recupero della sovranità monetaria nazionale, l’Italia non solo potrebbe affrontare questa crisi in modo molto più efficace e indolore, ma risolverla in molto meno tempo rispetto a quello previsto dai catastrofisti a comando e a libro paga delle banche (che ripetono anatemi apocalittici, del tipo “con il ritorno alla lira l’Italia verrebbe tagliata fuori dai commerci internazionali per circa 10, 20, 50 anni, per tutta l’eternità!”, senza mai portare una sola prova o uno straccio di ragionamento scientifico sul quale basare queste previsioni insensate).




Nel mese di giugno 2012, ISTAT ha infatti certificato un saldo positivo della bilancia commerciale italiana con l’estero, confermando un surplus di +2,517 miliardi di euro (di cui €997 milioni provenienti dai paesi intra-eurozona e €1,520 miliardi dal resto del mondo) rispetto al deficit di -1,704 miliardi registrato nello stesso mese del 2011. Un balzo spaventoso, impressionante, un vero miracolo (soprattutto se parametrato con le condizioni proibitive in cui si trovano a lavorare oggi le aziende italiane: crisi, tasse, burocrazia, costo del lavoro) che però il governo Monti si è guardato bene dal diffondere come successo propagandistico perché sa bene che non c’entra nulla con le sue riforme depressive ed è in un certo senso contrario a quello che è il suo vero obiettivo: rendere l’Italia un paese di consumatori e salariati e non di produttori, maggiormente dipendente dalle importazioni dall’estero, in modo da vincolare l’intero paese a rimanere ingabbiato più a lungo possibile nel sistema fascista di tortura finanziaria e espropriazione massiccia di ricchezza della moneta unica.




Analizzando il modo in cui si è formato questo surplus della bilancia commerciale, possiamo sicuramente confermare che una parte del successo può essere imputato alla crisi economica e al calo dei consumi, visto che le importazioni sono diminuite di un bel -7,1% in un anno, ma l’altra parte, le esportazioni che sono cresciute del +5,5%, sono senz’altro frutto della capacità delle imprese italiane, soprattutto nel settore manifatturiero e dei beni strumentali, di penetrare sia nei mercati bloccati e congelati dell’eurozona, che in quelli più dinamici dei paesi extra-eurozona ed emergenti. Ma cosa è accaduto di così eclatante e straordinario da spingere le aziende più tartassate e vessate del mondo a rialzare la testa? Ragioniamo. A livello mondiale, il quadro economico generale è rimasto pressoché invariato rispetto all’anno scorso: i paesi emergenti dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) a parte qualche lieve flessione crescono più o meno agli stessi ritmi, Stati Uniti e Giappone sono invece praticamente fermi sulla soglia di una nuova recessione. In Europa Italia, Grecia, Spagna sono in recessione tecnica, la Francia è in stagnazione e la Germania cresce ad un regime molto più basso dell’anno scorso. Quindi? Chi o cosa ha potuto trainare la ripresa delle esportazioni italiane? La risposta è molto semplice ed è ciò che i tecnocrati europeisti non avrebbero mai voluto sentire ronzare intorno alle loro orecchie, perché contraria a tutto ciò che loro avevano pianificato e previsto con l’introduzione di una moneta unica in Europa: la svalutazione dell’euro.




Se guardiamo infatti non al mese singolo di giugno, ma all’andamento del saldo della bilancia commerciale che si è registrato durante tutto l’anno, a partire dal mese di giugno 2011, scopriremo che il dato straordinario di giugno 2012 non è il frutto di un successo estemporaneo e passeggero ma l’effetto di una precisa tendenza che si è manifestata costantemente mese dopo mese. Se ci rifacciamo al primo grafico (vedi sotto) con i dati rielaborati questa volta da EUROSTAT, ci accorgiamo che il deficit della bilancia commerciale italiana con i paesi intra-eurozona si è ridotto mese dopo mese con una certa pendenza, la qual cosa non è evidentemente ascrivibile alla svalutazione dell’euro, dato che questi paesi utilizzano la stessa moneta. Una tendenza positiva che è molto più accentuata nei paesi della periferia e quindi è più marcatamente collegata ad un calo delle importazioni dovuto alla crisi piuttosto che ad un aumento delle esportazioni che comunque c’è stato.











Ma se esaminiamo adesso il secondo grafico (vedi sotto) con l’andamento dei saldi netti della bilancia commerciale con i paesi extra-eurozona, vediamo che ad eccezione dell’Olanda, il miglioramento nella bilancia commerciale con l'estero è condiviso da tutti i maggiori paesi dell’area euro, sia del centro (Francia, Germania) che della periferia (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, Irlanda), con una pendenza molto più ripida in questi ultimi rispetto ai primi, a conferma del fatto che le dinamiche del tasso di cambio flessibile sono più decisive e determinanti nei paesi meno organizzati in senso mercantilista sul modello della Germania, che con la sua politica di deflazione dei prezzi e dei salari e il contenimento della domandainterna ha sicuramente meno bisogno della svalutazione per accumulare surplus commerciali positivi e mantenere un’adeguata stabilità sociale entro i confini.










Nella tabella riassuntiva riportata sotto si vede chiaramente che in tutti i paesi PIIGS della periferia, ad eccezione del Portogallo, ma in misura minore anche in Germania e Francia, le variazioni marginali nella bilancia commerciale registrate durante l’anno sono maggiori negli scambi extra-eurozona che intra-eurozona, a riprova ancora del fatto che i benefici della svalutazione sia in uscita che in entrata (maggiori esportazioni e minori importazioni) con il resto del mondo hanno favorito un più rapido recupero di competitività. Nel caso dell’Italia, il nostro paese è riuscito a recuperare in un anno ben 1,4 punti percentuali di PIL negli scambi commerciali extra-eurozona, contro lo 0,4% recuperato all’interno dell’eurozona.









Questi dati confermano ancora una volta, qualora fosse necessario, che mentre i paesi PIIGS hanno urgente bisogno di una moneta debole e più svalutata per far ripartire la ripresa degli scambi commerciali con l’estero, la Germania, sebbene sia stata favorita anche lei dalla svalutazione dell'euro, in ottica puramente mercantilista continua invece a preferire una moneta forte e ancora più rivalutata per mantenere alto il valore dei capitali accumulati in passato e assicurare un tenore di vita dignitoso ai lavoratori che hanno già dovuto affrontare parecchi sacrifici e rinunce in termini salariali. Ecco spiegato il principale motivo per cui Berlino, e in particolare la banca centrale tedesca Bundesbank, mettono continuamente pressione alla BCE affinché si astenga dalla tentazione di attuare nuove politiche monetarie espansive, del tipo LTRO (Long Term Refinancing Operation) di rifinanziamento a lungo termine delle banche o SMP (Securities Markets Programme) di acquisto di titoli di stato sul mercato secondario. E insieme a molte altre, questa è una delle ragioni per cui una moneta unica introdotta in contesti economici, politici, sociali del tutto differenti non può funzionare, dovendo conciliare esigenze spesso completamente opposte da parte dei paesi aderenti all’unione monetaria.




Continuando però sulla linea dell’intransigenza, i tedeschi non solo dimostrano di avere imparato poco dal passato e di ignorare i sensazionali vantaggi prodotti dalla cooperazione (“teoria dei giochi”), ma anche di non avere ancora capito praticamente nulla sul funzionamento del sistema monetario moderno: il valore di cambio o il potere di acquisto di una valuta non dipende soltanto dalla “quantità di moneta” emessa dalla banca centrale (la teoria quantitativa della moneta di Fisher e Friedman, elevata a legge di natura soltanto in Europa, è ormai considerata una baggianata da tutti i maggiori esperti mondiali di politica monetaria), ma da “come” le banche private depositarie o gli stati nazionali mettono in circolo questi nuovi soldi, dagli scambi commerciali e finanziari con l’estero e dal grado di fiducia che gli investitori internazionali hanno sulle possibilità di ripresa e crescita economica di una certa area valutaria. Credere fra l'altro che esista un'elevata correlazione diretta fra svalutazione della moneta e perdita del potere di acquisto (o aumento dell'inflazione) porta immancabilmente ad una serie di errori e incomprensioni della realtà economica, da cui è difficile districarsi.




Se osserviamo il grafico riportato sotto sull’andamento del valore di cambio euro/dollari durante l’ultimo anno, notiamo che la caduta libera dell’euro dal valore di picco di 1,45 dollari di agosto scorso a 1,24 dollari attuali (svalutazione del 14,5%), è iniziato ben prima della discesa in campo della BCE con le sue operazioni monetarie non convenzionali (datate settembre, dicembre e febbraio e anzi, come si può vedere dal grafico, in prossimità delle nuove massicce immissioni monetarie, l'euro rivalutava perchè aumentava la fiducia degli investitori internazionali) ed è dovuta principalmente all’incapacità e incompetenza dei tecnocrati europei di affrontare tempestivamente la crisi e trovare una soluzione condivisa, che a sua volta ha spinto i maggiori operatori finanziari internazionali a smobilitare in fretta tutte le attività denominate in euro, comprese le riserve in valuta, in vista della recessione puntualmente arrivata e del tracollo definitivo dell’unione monetaria. E in mezzo a queste tremende oscillazioni del tasso di cambio ed enormi iniezioni di massa monetaria nel sistema, l'inflazione media in Europa è rimasta ancorata al suo granitico valore del 2%, con basse variazioni sia verso l'alto che verso il basso, a dimostrazione del fatto che la visione neoliberista tedesca dell'economia, da cui dipendono le scelte della BCE e le sorti degli altri paesi europei, è completamente fuorviante.












Non tutto il male (se la temuta svalutazione può essere considerata un male, visto che è un semplice dato tecnico che misura gli squilibri commerciali e finanziari in corso) viene però per nuocere perché sconfessando i detrattori dei cambi flessibili e gli esegeti della moneta forte, questa volta la svalutazione dell’euro ha chiaramente dimostrato che in certe particolari condizioni di stallo dell’economia può agire da volano di sviluppo e da motore di avviamento di tutte le attività produttive. Se consideriamo infatti la bilancia commerciale complessiva dell’area euro nei confronti del resto del mondo abbiamo nel solo mese di giugno un surplus di +3,7 miliardi di euro che annualizzato a tutto il 2012 diventa un avanzo di ben +66,9 miliardi: un notevole balzo in avanti se confrontato con il deficit commerciale di -7,4 miliardi registrato nel 2011, che può essere soltanto ricondotto agli effetti positivi della svalutazione. Un successo che spiazza soprattutto gli Stati Uniti, che spingono per una fine rapida della recessione europea e un ritorno della fiducia nel vecchio continente non tanto per un improvviso afflato di solidarietà (gli americani, ma ci credete voi?), ma perché il ritorno ad un euro più forte potrebbe arrecare considerevoli vantaggi alla fragile ripresa americana, che verrebbe trainata dalle esportazioni in Europa e da un dollaro nuovamente più svalutato.




E’ sempre utile ricordare che la svalutazione di una moneta nei confronti di una o più monete concorrenti corrisponde anche ad una rivalutazione di queste ultime rispetto alla prima: quindi il paese che aumenta le sue esportazioni appoggiandole su una moneta più svalutata, assisterà anche per diretta conseguenza ad una riduzione delle importazioni dai paesi che stanno intanto rivalutando e ad un maggior ricorso alle produzioni locali. Ovviamente il paese in questione dovrebbe essere in grado di sostituire rapidamente i beni di importazione con beni locali equivalenti, altrimenti la sua dipendenza dall’estero avverrà a costi sempre maggiori e insostenibili. Un caso quest’ultimo che può essere applicato ad un paese come la Grecia, ma non all’Italia, che a parte gli elevati costi per l’energia (petrolio e gas soprattutto) che pesano per circa il 17% sul valore complessivo delle merci importate, può contare su un’industria manifatturiera capace ancora (e nonostante tutti i legacci monetari e amministrativi con cui vengono quotidianamente strangolate) di competere alla pari in termini qualitativi e produttivi con le maggiori potenze industriali mondiali. Facciamo subito un esempio per capirci.




Se l’Italia dovesse uscire domani stesso dall’euro e ritornare alla lira, sappiamo ormai con un certo grado di approssimazione che la nuova moneta nazionale dovrebbe subire una svalutazione di circa il 20% rispetto alla moneta principale di riferimento (il marco tedesco) della precedente area valutaria di appartenenza. Ovviamente ciò significa che la lira si svaluterebbe nei confronti del marco ma potrebbe ragionevolmente rivalutarsi rispetto alle monete di altri paesi con cui manteniamo un saldo positivo negli scambi commerciali e finanziari. Tuttavia assumendo per eccesso una svalutazione media complessiva del 20%, avremo che i prezzi dei prodotti di importazione verrebbero automaticamente maggiorati della stessa quantità, perdendo convenienza rispetto a quelli locali. Ora di tutte le necessità impellenti di una comunità nei periodi immediatamente successivi ad un cambiamento così radicale di struttura economica, l’acqua corrente penso che sia uno di quei bisogni dai quali nessuno possa prescindere: se andiamo a scorrere l’elenco dei maggiori produttori di pompe idrauliche operanti nel mercato europeo scopriremo con nostra sorpresa che si tratta principalmente di aziende tedesche, francesi e “italiane”. Quindi per quanto riguarda l’acqua corrente siamo coperti e con la nostra bella liretta svalutata tanto invisa ai tromboni del regime potremmo comprarci le nostre belle pompe idrauliche “italiane”, in caso di guasto o svecchiamento per usura.




Se ripetiamo l'esperimento con altri beni di consumo, strumentali o intermedi essenziali ritroveremo insospettabilmente che le aziende italiane sono ancora tutte lì, presenti, eroiche a battagliare con cinesi, tedeschi, americani, francesi, giapponesi, coreani, nonostante questi lunghi trenta anni di cattiva politica e indegna guerra al massacro dell’economia nazionale. Se infine riprendiamo la solita solfa sull’arretratezza tecnologica italiana, la mancanza di industrie produttrici di computer, i-phone, i-pad, pensate davvero che con una corretta politica di incentivi e protezioni (come fanno tutti nel mondo) non potrebbe nascere in Italia una nuova filiera della tecnologia? Ma se le migliori schede elettroniche del mondo le costruiscono gli ingegneri italiani alla STMicroelectronics di Catania? Credete davvero che non sia possibile convincere un centinaio di questi ingegneri insieme ad altri cervelli in fuga in giro per il mondo a ritornare in patria per partecipare ad una nuova avventura tutta “italiana”?




Quello che in verità manca all’Italia non è la forza lavoro, le competenze, le professionalità (ripetiamo, sempre per adesso, ma più avanti si va in questa lenta agonia e maggiori sono le possibilità che la meschina classe dirigente attuale riesca a piegare le ultime resistenze ancora vive del paese), ma una vera classe dirigente, fatta di politici e imprenditori capaci di valorizzare queste risorse e di seguire un progetto dall’inizio alla fine, senza ripiegare su facili scorciatoie, intrallazzi, salvacondotti personali. E’ chiaro che con la svalutazione della nuova lira, gli investitori esteri avrebbero maggiori vantaggi a comprare a buon mercato le aziende italiane più attraenti, ma in questo caso dovrebbe essere la politica con giuste norme e sanzioni amministrative ad impedire le acquisizioni sregolate. Dovrebbe essere ancora la politica a favorire con sussidi e barriere all’ingresso delle merci concorrenti la nascita di aziende nei settori dove siamo carenti, perché il protezionismo non è affatto in contraddizione con il liberismo, dato che i due approcci possono benissimo convivere all’interno della stessa nazione: si può essere protezionisti con le aziende o i settori in fase di start-up e liberisti con le imprese già avviate e capaci di confrontarsi alla pari con i mercati internazionali. E’ sempre l’eccesso di protezionismo o di liberismo a creare squilibri irreparabili, non la giusta misura fra due strategie solo apparentemente opposte.




I liberisti o sedicenti tali che inquinano il dibattito pubblico italiano (vedi gli smidollati neoliberisti alla Oscar Giannino che vedono nello Stato il nemico degli affari, trascurando il fatto che esistono vari tipi di Stato e in quello ideale che andiamo tratteggiando qui, le istituzioni pubbliche sono il sostegno, il supporto, la soluzione alle richieste dell’economia e non il problema) dovrebbero rifarsi alle origini e alle tradizioni del liberismo europeo, andandosi a rileggere attentamente Adam Smith, per scoprire che la “Ricchezza delle Nazioni” di cui parlava l’autore non erano i soldi o l’oro, ma il lavoro, l’organizzazione, le competenze. Ci vogliono anni per formare un operaio qualificato, un ingegnere o mettere su un’azienda, mentre come tutti sanno ma fanno finta di non sapere bastano pochi secondi per creare o distruggere dal nulla enormi quantità di denaro digitale, che senza un corrispondente sottostante nell’economia reale sono solo impulsi elettronici privi di valore, ma capaci in un attimo di fare la fortuna di speculatori, banchieri, imprenditori neoliberisti smidollati che hanno preferito vivere di rendita con la finanza piuttosto che rischiare di gettarsi in un progetto che li obbligherebbe a lavorare per davvero. La vera risorsa scarsa non sono quindi i soldi, come vanno blaterando questi neoliberisti smidollati sulla scia della follia teutonica, ma gli uomini, le conoscenze, le idee, le innovazioni, la ricerca, la capacità di investire in un progetto e di utilizzare in modo sano e sostenibile le risorse naturali. Ed è di questa specifica “ricchezza” che continuando a percorre il vicolo cieco della perenne anemia finanziaria fomentata dal falso mito della moneta forte rischia di essere presto o tardi priva l’Italia.




L’euro è stato l’alibi con cui è diventato più conveniente per questa sottospecie di decerebrati, gli imprenditori mercenari collusi con la politica corrotta che ha trascinato l’Italia nella gabbia depressiva e deflattiva dell’eurozona (i vari De Benedetti, Colaninno, Chicco Testa, Marchionne, Tronchetti Provera), ad abbandonare quasi del tutto la strada dell’innovazione e dello sviluppo e a mettersi al traino dell’allucinogeno miraggio europeista, basato sulle grandi corporazioni, la finanziarizzazione spinta delle attività, l’apertura convinta senza protezioni ai mercati internazionali, la riduzione dei salari e delle tutele sindacali, la bassa inflazione come unica arma di difesa nel tempo del valore dei grandi capitali accumulati dai cartelli monopolisti europei. Ma cosa si voleva sperare mettendosi in libera concorrenza con un lavoratore schiavizzato cinese? Che il salario dell’operaio italiano o tedesco sarebbe cresciuto? Che saremmo riusciti a piegare i mercati cinesi? Servono ancora grafici per spiegare che gli straordinari surplus commerciali tedeschi si sono creati grazie ad una guerra fratricida interna all’eurozona e non un centesimo è stato fatto a spese della Cina? Ma soprattutto, quale legge divina impone alle democrazie evolute europee di accettare la globalizzazione sfrenata e selvaggia come unica e definitiva forma di organizzazione degli scambi commerciali internazionali?




Questo tipo di globalizzazione, che avvantaggia in maniera spropositata chi non rispetta le regole, chi inquina, chi sfrutta i lavoratori, si può e si deve rimandare con forza al mittente (FMI, WTO, Banca Mondiale, BIS), come già hanno fatto parecchi stati del Sudamerica (Argentina, Ecuador, Venezuela, Bolivia). La conseguenza più ovvia della passiva assuefazione è stato invece il prevedibile, lento ma inarrestabile massacro della piccola e media impresa italiana, che a seconda dei casi è stata inglobata nei grandi gruppi industriali oppure, quando i costi di incorporazione o di gestione risultavano troppi elevati, lasciata da sola in balia dei “mercati” in attesa che venisse travolta e costretta al fallimento. Oggi come ieri, la piccola e media impresa italiana risulta un ostacolo per il progetto europeista di globalizzazione sponsorizzato dai banchieri e dalle multinazionali (che spesso sono un unico soggetto, suddiviso in un ginepraio di diramazioni, holdings, controllate, joint venture, società off-shore, scatole cinesi), iniziato da Kohl, Mitterand, Prodi e che Merkel, Monti, Hollande sperano di portare a termine: una struttura totalitaria compatta, che abbia il suo cuore finanziario nella BCE, nella Bundesbank, nelle banche tedesche e francesi, la muscolatura produttiva nelle grandi corporazioni transfrontaliere che non hanno più identità o appartenenza, fino ad arrivare alle sacche intestinali di manovalanza a buon mercato della periferia, passando per il centro nevralgico degli affari con sede a Bruxelles. Niente più propaggini, apparati pubblici ridondanti, enti locali battaglieri, imprese a gestione familiare, cani sciolti. Nessuno spazio per la democrazia. La contrattazione. I diritti umani.




Se è bastato un solo anno di crisi accompagnata da svalutazione dall’euro per far rialzare la testa a quel che è rimasto della piccola e media impresa italiana capace di esportare all’estero, significa che Mario Monti deve ancora lavorare parecchio prima di distruggerla definitivamente. E significa soprattutto che la strada intrapresa trenta anni fa dall’Italia di aggancio alla moneta forte e subalternità al vincolo esterno non era quella più adatta ad esaltare le caratteristiche produttive del nostro territorio. Gli italiani hanno bisogno di una moneta debole, più agile, flessibile, abbondante per riuscire a penetrare nei mercati internazionali, valorizzare le enormi risorse, investire nella creatività e nell’innovazione, tenere in piedi il suo costoso ma ineludibile stato sociale, contrastare le calamità naturali e il degrado ambientale, diventare un’avanguardia nel campo delle energie rinnovabili, che per ovvie ragioni geografiche e climatiche dovrebbero rappresentare un settore di traino dell’intera economia nazionale, non un settore di nicchia o un terreno di conquista per spregiudicati arrivisti, speculatori o dilettanti allo sbaraglio (si veda a proposito il piano energetico nazionale proposto dall’idiota banchiere prestato alla politica Corrado Passera che va in tutt’altra direzione, privilegiando le trivellazioni in cerca di petrolio e penalizzando per l’ennesima volta gli incentivi alle energie rinnovabili: cosa dire? Servono altre parole per avere una definizione più chiara di idiozia?).




Tutti questi progetti ed iniziative per diventare operativi hanno bisogno di una stretta interazione fra finanza pubblica e privata, senza troppi vincoli di politica monetaria di stampo teutonico, perché non si può pretendere di rimettere in moto un paese sperando solo nella fiducia dei “mercati” privati o nell’arrivo dei capitali esteri, per il semplice fatto che non è interesse dei “mercati” finanziare attività che vadano al di là del breve o brevissimo termine e non è interesse nostro chiedere gli investimenti esteri (quindi indebitarci) per progetti che possiamo tranquillamente condurre in porto da soli. Per ripartire e recuperare la competitività perduta in questi ultimi dieci anni di strazio, l’Italia ha bisogno di una sua moneta e di ampia libertà di manovra nelle scelte di politica economica. Ha bisogno della lira. Punto. L’Europa tutta ha urgente necessità di ritornare ad una più corretta ed equilibrata gestione degli scambi commerciali riprendendo ad una ad una tutte le monete nazionali accantonate con troppa fretta e rivitalizzando quei normali rapporti di vicinanza che per lungo tempo sono rimasti ingessati e a senso unico (dalla Germania alla periferia, solo andata senza ritorno) a causa del vincolo innaturale del cambio fisso prima e della moneta unica poi.




Questa opera di pulizia e redenzione non sarebbe come prospettano molti un anacronistico ritorno al passato, una chiusura nel becero nazionalismo, ma una semplice constatazione di un fatto puramente razionale, tecnico o se volete sociale che porta a bocciare un progetto sbagliato, dozzinale, perché poggiato su ipotesi sbagliate, grossolane, umanamente agghiaccianti. Una sceltapoliticaavventata, che trascurando gli allarmi dell’economia, ha finito poi per vivere soltanto sulla manipolazione dei dati economici, fino alla definitiva ribellione di questi ultimi. Sono infatti i dati economici a gridare vendetta, più che la disperazione della gente o le tensioni, queste sì nazionalistiche, che puntualmente si stanno accendendo fra i popoli europei che per 50 anni, dopo la fine della seconda guerra mondiale, erano riusciti bene o male a vivere in pace e in armonia. Non sarà solo un caso che dopo l’ingresso nell’euro nel 2002, l’Italia non ha più registrato un surplus delle partite correnti con l’estero (vedi grafico sotto). Questo è un dato, su cui un giorno qualcuno dei responsabili politici dello scempio (la pseudo-sinistra italiana, il PD in particolare, e in misura minore il PDL e l’UDC) dovrebbe rendere conto e ragione ai cittadini italiani, in pubblica piazza (o meglio ancora in un’aula di tribunale).










Un’ultima considerazione prima di concludere. Finora abbiamo parlato solo di bilancia commerciale, esportazioni di beni e servizi, ma abbiamo trascurato il conto finanziario, ovvero il bilancio delle attività e passività finanziarie da cui dipendono poi gli interessi che paghiamo sul debito estero e i profitti che dobbiamo corrispondere agli investitori stranieri. Una moneta nazionale e una politica monetaria autonoma consentirebbero non solo di procedere ad un’indispensabile detassazione sia dei cittadini che delle imprese (ormai sappiamo che in un quadro di piena sovranità monetaria le tasse non servono per ripagare né le spese né i debiti pubblici) in vista di un ulteriore recupero di competitività, ma ad orientare perfettamente il regime dei tassi di interesse. Mantenendo un livello di tassi di interesse bassi per tutto il tempo necessario, potremmo rimborsare o rinnovare nel giro di pochi anni l’intero debito estero cumulato (che a dispetto di tutto e a differenza degli altri paesi della periferia europea è ancora gestibile, intorno al 30% del PIL, vedi grafico sotto), anche in presenza di una forte svalutazione della nuova lira (bisognerebbe vedere poi caso per caso, a secondo delle tipologie contrattuali adottate, quale parte di debito estero potrebbe essere denominato in nuove lire e quale invece dovrebbe essere denominato in una valuta internazionale). Questa conclusione deriva dallo stesso surplus della bilancia commerciale, che sospinto dalla svalutazione della lira escluderebbe, almeno inizialmente, la necessità di tenere alti i tassi di interesse per attirare capitali esteri necessari a riequilibrare eccessivi disavanzi nelle partite correnti. Si innescherebbe in pratica un circolo virtuoso capace di annullare con i surplus commerciali gli effetti nefasti di crescita degli interessi dovuti all’adozione dell’euro, che sono la causa maggiore del nostro attuale deficit nelle partite correnti.











Poi sapendo tutti questi “fatti” e conoscendo questi “dati”, ognuno è libero di farsi rimbambire con i canti corali sulla tragedia greca o le violente picchiate dei falchi tedeschi, rimanendo immobile in attesa del gran finale. Ma la realtà dei “fatti” non cambia. L’euro è una moneta sbagliata, destinata a scomparire e prima o dopo, volenti o nolenti, noi dovremo tornare alla lira. Se lo faremo prima, i costi umani e sociali saranno minori, perché gli indici economici confermano che oggi siamo ancora in tempo per uscire dall’euro senza troppi traumi. Se lo faremo dopo invece, quando il nostro tessuto produttivo interno sarà stato dilaniato e impoverito, le condizioni saranno molto più sfavorevoli e servirà più tempo per ripristinare una situazione di normalità e di equilibrio. Questo dice l’economia, tutto il resto, le previsioni di Monti, le minacce di Draghi, le carriole di Bersani, le preghiere rivolte alla Mecca dei sindacalisti sono solo una farsa, una pantomima che serve a coprire un’altra pagliacciata, molto più vile e insidiosa, andata in scena più di trent’anni fa. Chi si diverte con poco si accomodi pure, ma poi non si stupisca se un giorno si ritroverà con un cappio al collo e sull’orlo di un baratro perché “ce lo chiede l’Europa!”.





Pubblicato da PIERO VALERIO a 17:42
 
Ultima modifica:

mototopo

Forumer storico
</SPAN></DIV>



E il dibattito in effetti si è acceso abbastanza rapidamente e vivacemente in tutto il mondo. Perché il Piano di Chicago è rivoluzionario da molti punti di vista e se applicato alla lettera ribalterebbe alla radice gli equilibri e i rapporti di forza esistenti fra lo strapotere incondizionato del sistema finanziario ormai fuori controllo e le risicate rivendicazioni politiche, economiche e sociali degli antichi stati democratici soggiogati, schiacciati, ridimensionati a ruoli e compiti sempre più marginali. Ora chi conosce anche sommariamente la linea politica di difesa ad oltranza dei grandi interessi privati e di tutela dei potentati finanziari seguita da sempre dal FMI, a tutto svantaggio del benessere dei popoli e delle democrazie, potrebbe nutrire non pochi sospetti sulla fondatezza e credibilità di questo repentino cambio di marcia. Perché oggi il FMI dovrebbe farsi garante di cambiamenti epocali di paradigma che fino a ieri ha sempre apertamente o subdolamente osteggiato? Quali reali interessi ha il FMI a diffondere nuove teorie sul riassetto dell’attuale sistema finanziario, quando i suoi maggiori azionisti, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa, sono contrari a qualsiasi minima variazione di programma? Quale fregatura si nasconde dietro questo improvviso atteggiamento innovativo del FMI? Senza alcuna pretesa di essere esaustivo o conclusivo, vi offro la mia personale opinione in proposito, aprendomi già al confronto e alle smentite.





Il FMI, tramite il suo esercito di collaboratori, consulenti, economisti, dirigenti, conosce meglio di qualunque altro al mondo la situazione odierna di disastro e follia del sistema finanziario globale, dopo anni di deregolamentazione selvaggia e liberalizzazione sfrenata dei movimenti dei capitali. Sintetizzando al massimo le conclusioni, possiamo dire che il sistema finanziario mondiale, trainato principalmente dagli Stati Uniti, è già fallito da un pezzo e sta cercando di tenersi in piedi grazie al supporto e alle iniezioni massicce di liquidità da parte delle Banche Centrali. Nonostante queste cure terminali che sfiorano l'accanimento terapeutico, il sistema finanziario non è riuscito ancora, né autonomamente né attraverso le innumerevoli direttive degli organi di vigilanza e degli enti istituzionali preposti, a trovare una soluzione definitiva al problema della proliferazione del credito non garantito e dei titoli derivati completamente sganciati dal tessuto economico reale e diventati spesso pura spazzatura finanziaria senza alcun valore di mercato. Le iniezioni di liquidità servono a rendere sostenibile il sistema del credito e a concedere ancora un valore fittizio di scambio ai titoli ormai deprezzati per via naturale: fino a quando può durare però l'effetto placebo di copertura? Nessuno sa rispondere a questa domanda e lo stesso FMI brancola nel buio. Ad ogni modo, in attesa di tirare fuori il coniglio dal cilindro, il FMI sta vagliando disperatamente tutte le possibili alternative. Anche quelle che in apparenza contrastano con i suoi principi privatistici e con le sue logiche predatorie. Piuttosto che affondare miseramente insieme alla fragile e caracollante impalcatura del sistema finanziario globale, il FMI è anche disposto a cambiare temporaneamente le regole del gioco, concedendo maggiore equilibrio, sostenibilità e democraticità al sistema, per poi magari ricambiarle in favore dei soliti noti quando la situazione si sarà rasserenata e l’economia riprenderà a macinare a pieno ritmo.




Segnali di un frettoloso abbandono dei dogmi del neoliberismo integrale e di una miracolosa conversione ad una gestione più razionale e umana dell'economia da parte del FMI ne arrivano a bizzeffe. Abbiamo già visto come in un altro documento il FMI aveva pubblicamente sconfessato le fallimentari politiche di austerità del regime tecnocratico finanziario dell’eurozona, ammettendo persino i suoi stessi errori di previsione basati sul calcolo sbagliato e sottostimato del moltiplicatore fiscale. In un recente documento il FMI ha addirittura ammesso che in certi casi un controllo parziale o totale dei movimenti di capitali può favorire le economie sia dei paesi emergenti che sviluppati. Con la pubblicazione del Piano di Chicago Rivisitato l’FMI si spinge indirettamente anche oltre, prefigurando un cambio epocale che rimetterebbe ordine innanzitutto politico e in secondo luogo economico alle ingarbugliatissime questioni legate al processo di emissione della moneta e di erogazione del credito: il denaro utilizzato dai cittadini può essere emesso soltanto dai governi democratici, mentre il ruolo delle banche viene confinato all’esclusiva attività dell’intermediazione del credito. Dopo essere state confuse e mischiate insieme per più di tre secoli, dalla storica delega del diritto sovrano di signoraggio sull’emissione di moneta alla Bank of Engand del 1694, moneta e credito diventano di nuovo (e finalmente aggiungerei io) due entità finanziarie completamente indipendenti, distinte e separate.




Tuttavia il modo e la semplicità con cui il Piano di Chicago arriva a questa conclusione è obiettivamente incredibile e sensazionale: le banche per erogare prestiti ai mutuatari non sono costrette ad indebitarsi con gli agenti privati, che hanno un eccesso di risparmi da investire, ma possono a loro volta chiedere prestiti in riserve, in vero denaro, direttamente al governo, che è l’unico ente garante a decidere, controllare, verificare quanta moneta immettere nell’economia per il suo corretto ed equilibrato funzionamento. Per quale motivo chiedere ad un privato cittadino o un’azienda di privarsi delle loro riserve di denaro, quando le banche possono rivolgersi direttamente all’unico vero fornitore monopolista di moneta? Fine di un’epoca, quella del debito privato a catena e inizio di una nuova era, quella della moneta di stato priva di debito e delle banche ridotte al loro naturale ruolo di costole, concessionarie o corollari del governo: semplici società di diritto privato ma di interesse pubblico, che hanno il dovere di supportare il governo nella difficile opera di sostegno e finanziamento di un’intera economia nazionale.




Lasciando al resto dell’articolo il compito di chiarire i dettagli della faccenda, la mia personale opinione è quindi che il FMI ha paura, è terrorizzato dalla sfilza interminabile di dati e indici negativi che ogni giorno passano sulle scrivanie dei suoi consulenti e collaboratori, e nei limiti del possibile delle sue funzioni e dei suoi specifici interessi, cercherà di correre ai ripari prima che sia troppo tardi. Alcune evidenze empiriche sono ormai di dominio pubblico, in tutto il mondo è un fiorire di teorie monetarie e movimenti culturali e di opinione su temi economici e finanziari (vedi la Modern Money Theory o lo stesso Positive Money), e il FMI non può correre il rischio di rimanere indietro e di farsi superare in curva da chi in effetti avrebbe già delle soluzioni pronte da offrire alla collettività. Al pari di tutte le altre teorie monetarie o alternative, anche il Piano di Chicago merita dunque di essere studiato, sviscerato a fondo, diffuso in modo capillare, perché le sue premesse sono sacrosante e le sue fonti sono fra le più autorevoli nella storia dell’economia. Di seguito viene presentata la lunga e di per sé già eloquente Introduzione del documento, che come al solito non è una traduzione letterale del testo originario (non ne sarei capace), ma una sintesi più scorrevole e leggibile dei concetti espressi (risparmiandovi tutta la rigorosa trattazione matematica e tecnica che potrete ritrovare direttamente sul documento ufficiale).





Piano di Chicago Rivisitato: Introduzione




Il decennio successivo l'inizio della Grande Depressione è stato un periodo di grande fermento intellettuale in economia, in quanto i principali pensatori del tempo hanno cercato di comprendere l'apparente fallimento del sistema economico esistente. Questo scontro intellettuale si estese a molti settori ed argomenti di studio, ma senza dubbio la questione più importante è stata l’economia monetaria, dato che il ruolo del comportamento delle banche private e della politica della Banca Centrale è stato una chiave fondamentale di innesco e di prolungamento della crisi. Durante questo periodo un gran numero di importanti macroeconomisti americani ha sostenuto un’ambiziosa proposta di riforma monetaria che più tardi divenne nota con il nome di Piano di Chicago. Inizialmente il suo più fervente sostenitore fu il professor Henry Simons dell'Università di Chicago, ma poco dopo il suo lavoro fu brillantemente raccolto e riassunto dal professore Irving Fisher della Yale University (1936).




La caratteristica fondamentale di questo Piano riguardava soprattutto la separazione delle funzioni monetarie e creditizie del sistema bancario, in primo luogo richiedendo la copertura del 100% dei depositi con denaro emesso dal governo (riserve) e in secondo luogo garantendo che il finanziamento del nuovo credito bancario potesse avvenire solo attraverso i fondi ottenuti in forma di denaro emesso dal governo, i prestiti di denaro emesso dal governo già esistente forniti dal settore non bancario (tipicamente depositi di investimento di famiglie e aziende) e non attraverso la creazione dal nulla di nuovi depositi da parte delle banche, in seguito alla concessione di prestiti aggiuntivi. Fisher ha sostenuto i quattro principali vantaggi di questo Piano:


<!--[if !supportLists]-->
1) <!--[endif]-->Evitare che le banche potessero creare propri fondi di nuova moneta creditizia durante le fasi di esplosione del credito, per poi distruggere questi fondi durante le successive contrazioni, avrebbe consentito un controllo molto migliore dei cicli di credito, che sono spesso indicati come la fonte principale delle fluttuazioni del ciclo economico.




<!--[if !supportLists]-->2) <!--[endif]-->La riserva al 100 % per la copertura dei depositi in luogo della famigerata riserva frazionaria avrebbe eliminato completamente il rischio di corse agli sportelli durante le crisi bancarie (bank runs).




<!--[if !supportLists]-->3) <!--[endif]-->Permettere al governo di emettere denaro direttamente a interesse zero, piuttosto che prendere a prestito quello stesso denaro dalle banche a interesse, avrebbe portato ad una drastica riduzione della spesa per interessi che gravava sulle finanze pubbliche e a un forte ridimensionamento del debito netto, dato che il denaro irredimibile emesso dal governo rappresenta un’attività all’interno della comunità, piuttosto che un debito.




<!--[if !supportLists]-->4) <!--[endif]--> Dato che la creazione di denaro emesso direttamente dal governo non richiederebbe la creazione simultanea di gran parte dei debiti privati sui bilanci delle banche, l'economia nazionale avrebbe potuto assistere ad una provvidenziale riduzione non solo delle debito pubblico ma anche dei livelli di indebitamento privato.






Prendendo per il momento come evidente la verifica di queste quattro affermazioni, il Piano di Chicago sarebbe stato quindi un criterio altamente desiderabile di politica monetaria. Tuttavia pensatori profondi come Fisher e molti dei suoi coetanei più illustri, basarono gran parte delle loro intuizioni sulla scia dell’esperienza storica e del buon senso comune, e furono duramente attaccati per non avere modelli economici completi capaci di dimostrare formalmente i vantaggi per il benessere collettivo derivanti dal rifiuto dello sviluppo economico trainato dai cicli di espansione-contrazione del credito bancario, dalla fine delle corse agli sportelli e dalla riduzione degli elevati livelli di debito complessivo. In realtà noi crediamo che questo li ha resi dei pensatori migliori, non peggiori, sulle questioni della massima importanza per il bene comune, perché se un fatto è evidente di per sé, troppe dimostrazioni risultano a volte ridondanti e non necessarie. Ma siamo in grado di dire anche qualcosa in più riguardo a questo.




Le recenti prove empiriche documentano molto bene gli elevati costi dei cicli di espansione-contrazione del credito bancario e delle corse agli sportelli nel corso della storia. Alcuni noti studi empirici supportano la versione di Fisher secondo cui gli elevati livelli del debito sono un importante fattore sintomatico e predittivo delle grandi crisi. Quest'ultima constatazione è anche coerente con altri lavori teorici, che mostrano come livelli molto alti di debito, come quelli osservati appena prima dell’inizio della Grande Depressione e della Grande Recessione, possono portare ad una maggiore probabilità di crisi finanziarie e reali. Dobbiamo però adesso vedere quali vantaggi concreti apporterebbe l’adozione del Piano di Chicago, in base ai quattro punti descritti da Fisher.




Il primo vantaggio del Piano di Chicago piano è che permette un controllo molto migliore e puntuale di quello che Fisher e molti dei suoi contemporanei avevano individuato come la fonte principale delle fluttuazioni del ciclo economico e degli affari: le improvvise espansioni e contrazioni del credito bancario che non sono necessariamente sostenute dai fondamentali dell'economia reale, ma che finiscono molto spesso per modificare quegli stessi fondamentali. In un sistema finanziario con poca o nessuna riserva frazionaria a copertura dei depositi, e quindi con un margine molto piccolo di denaro contante emesso dal governo rispetto alla totalità dei depositi bancari, la creazione di ampi aggregati monetari di una nazione dipende quasi interamente dalla volontà o decisione delle banche di offrire nuovi depositi. Dato che i depositi bancari aggiuntivi possono essere creati solo tramite ulteriori concessioni di nuovi prestiti bancari, i cambiamenti improvvisi nella disponibilità delle banche di concedere credito non portano soltanto ad espansioni o contrazioni del credito, ma anche ad un istantaneo eccesso o scarsità di soldi, e in ultima istanza ad una variazione della domanda aggregata nominale, della produzione e del reddito di un’intera nazione.




Al contrario, con il Piano di Chicago la quantità di denaro e la quantità di credito diventerebbero due grandezze completamente indipendenti una dall’altra. Ciò consentirebbe alla politica monetaria di controllare questi due aggregati in modo separato e quindi più efficiente. La crescita del denaro può essere controllata direttamente tramite una regola specifica che indirizzi in uno o nell’altro verso la quantità di moneta circolante. Il controllo della crescita di credito può invece diventare un’attività molto più semplice perché le banche non avrebbero più la capacità, come avviene oggi, di creare dal nulla i propri fondi, i depositi, nell'atto stesso in cui concedono un nuovo prestito: un privilegio incredibile di cui non può usufruire nessun altro settore economico. In questo modo le banche sarebbero presto diventate ciò che molti erroneamente credono siano oggi: semplici istituti di intermediazione del credito, la cui attività dipende dall’arrivo di fondi o finanziamenti esterni prima ancora di essere in grado di concedere a loro volta finanziamenti ad altri soggetti. Avendo invece con il Piano di Chicago la necessità di ottenere finanziamenti esterni al posto della propria discrezionale volontà di creare autonomamente nuovi fondi all’occorrenza, verrebbe molto ridotta la capacità delle banche di innescare nuovi cicli economici in base ai cambiamenti potenzialmente imprevedibili nel loro atteggiamento verso il rischio di credito.




Il secondo vantaggio del Piano di Chicago è che avendo riserva totale di copertura al 100% dei depositi verrebbe eliminato alla radice il problema delle corse agli sportelli, migliorando così la stabilità finanziaria e consentendo alle banche di concentrarsi sulla loro funzione principale di ente creditizio senza preoccuparsi dell’instabilità originaria che deriva dalle quantità di passività presenti a bilancio. Ad ogni modo l'eliminazione del problema bank runs avviene se vengono rispettate due condizioni. Primo, le passività monetarie del sistema bancario (tipicamente i depositi) devono essere completamente sostenute da un equivalente ammontare di riserve di denaro emesso dal governo, cosa che viene garantita applicando alla lettera le disposizioni del Piano di Chicago. In secondo luogo, le attività creditizie del sistema bancario devono essere finanziate da passività non monetarie o bancarie che non sono soggette a rischi di contrazione improvvisa. Questo significa che la politica monetaria deve garantire che tale passività non abbia le stesse caratteristiche della moneta, in termine soprattutto di liquidità e velocità di circolazione.




La letteratura scientifica degli anni trenta e quaranta discusse tre metodologie istituzionali tramite cui questo obiettivo può essere raggiunto. Il modo più semplice è richiedere che i fondi delle banche necessari a finanziare tutte le loro attività creditizie siano composte da una combinazione di partecipazioni azionarie al capitale sociale e prestiti del governo e quindi siano completamente privi delle normali caratteristiche di un sistema basato sul debito privato. Questo è l'elemento centrale della versione del Piano di Chicago considerato nel presente documento, perché ha un certo numero di vantaggi che vanno oltre e prevengono il pericolo che i fondi si trasformino troppo facilmente in moneta. In buona sostanza questo significherebbe che non c'è più alcuna forma di prestito tra agenti privati, ma il ruolo di intermediazione del credito delle banche avviene fra il governo monopolista di mezzi monetari e gli agenti privati che hanno bisogno di questi mezzi monetari per finanziare le loro spese e attività economiche.




Tuttavia, questa scelta può essere insufficiente quando gli agenti privati presentano livelli di debito iniziale altamente eterogeneo e diverso sia in tipologia che durata. In tal caso la soluzione dei prestiti del governo può essere accompagnata da uno o entrambi gli altri due strumenti istituzionali. Uno è la raccolta fondi di investimento dal settore privato (basati quindi sul debito privato) che devono essere utilizzati come reale forma di intermediazione del credito fra gli investitori e i prenditori di fondi, in quanto la banca può solo prestare denaro emesso dal governo ai mutuatari netti dopo che i risparmiatori netti hanno depositato prima questi fondi di investimento in cambio di titoli di debito emessi in garanzia. Ovviamente in questo caso c'è il rischio che tali strumenti o titoli di debito possano diventare con il tempo molto liquidi e in assenza di rigide e efficaci normative che ne regolino la convertibilità creare le premesse perché si trasformino in vera e propria moneta. Questo rischio sarebbe eliminato utilizzando la seconda alternativa: i fondi di investimento vengono finanziati esclusivamente da partecipazioni azionarie nette dei risparmiatori al capitale sociale della banca, in modo che i fondi vengano prestati poi ai mutuatari netti o investiti a sua volta in altre azioni, se questo è fattibile (non è fattibile per esempio nel caso delle famiglie debitrici, che non hanno capitale sociale e non possono emettere azioni per raccogliere fondi). Torneremo brevemente a questa alternativa dei fondi di investimento più avanti, anche se non sono la parte più importante della nostra analisi formale perché il nostro modello non presenta livelli di indebitamento eterogenei all'interno dei quattro gruppi principali di mutuatari della banca.




Il terzo vantaggio del Piano di Chicago è una drastica riduzione del debito netto del governo. Il totale delle passività del sistema finanziario odierno degli Stati Uniti, tra cui il sistema bancario ombra (shadow banking system), è di gran lunga superiore rispetto alle passività esistenti del governo degli Stati Uniti. Dato che in accordo con il Piano di Chicago le banche devono prendere in prestito le riserve dal governo per coprire completamente queste enormi passività, il governo acquisisce un’equivalente posizione attiva nei confronti delle banche, riducendo quindi il suo debito netto. I governi potrebbero mantenere queste posizioni attive lorde, oppure potrebbero discrezionalmente decidere di acquistare in fasi successive titoli di debito pubblico dalle banche cancellando una parte del loro credito. Fisher aveva in mente questa seconda opzione, sulla base della situazione degli anni trenta, quando le banche detenevano la maggior parte del debito pubblico. Ma visto che oggi la maggior parte del debito pubblico del governo degli Stati Uniti è detenuto al di fuori delle banche americane, la prima opzione diventa quella più plausibile. Ad ogni modo l’effetto finale sul debito netto del governo è ovviamente lo stesso: comincerebbe a diminuire drasticamente.




In questo contesto è fondamentale rendersi conto che lo stock di riserve, o moneta emessa dal governo, non è affatto un debito del governo. Il motivo è che la moneta fiat non è rimborsabile, in quanto i titolari di denaro non possono richiedere il rimborso in qualcosa di diverso dal denaro stesso. Inoltre, in un'economia in crescita il governo non avrà mai bisogno di ritirare volontariamente soldi dal mercato per mantenere la stabilità dei prezzi, dato che i fabbisogni monetari dell'economia aumentano da un periodo a quello immediatamente successivo. I soldi cartacei o elettronici devono quindi essere correttamente trattati come un’attività del governo e non come un debito pubblico, che è esattamente il modo in cui vengono trattate oggi le monete metalliche del governo secondo le convenzioni contabili degli Stati Uniti. Avere il monopolio di emissione o il privilegio di signoraggio sull’intera massa monetaria esistente, metterebbe definitivamente al riparo il governo da crisi di debito pubblico indotte soltanto da un’erronea comprensione del modo di funzionamento dell’intero sistema monetario.




Il quarto vantaggio del Piano di Chicago è la possibilità di una drastica riduzione dei debiti privati. Come già accennato, il sistema della riserva totale di copertura al 100% dei depositi di per sé genererebbe una posizione netta attiva del governo. Invece di mantenere ad oltranza questa posizione e diventare un grande creditore netto del settore privato, il governo ha la possibilità di ridurre una parte di questo vantaggio di posizione o signoraggio, acquistando nuovamente grandi quantità di debito privato dalle banche in cambio della cancellazione del credito del tesoro. Dato che una simile operazione comporterebbe un saldo di bilancio sostenibile con basso debito sia nel settore privato che del governo, è plausibile supporre che una reale e concreta implementazione del Piano di Chicago debba appunto basarsi su grandi operazioni di riacquisto (buy-back) del debito privato. Nella simulazione del Piano di Chicago presentata in questo documento si presuppone che il buy-back copra tutto il debito privato bancario ad eccezione dei prestiti che finanziano gli investimenti in capitale fisico o beni reali da parte delle aziende.




Noi analizzeremo le quattro affermazioni di Fisher sulla base dell’elaborazione di un preciso e completo modello calibrato sul sistema finanziario e economico odierno degli Stati Uniti. Come vedremo il modello offrirà un forte sostegno per tutte e quattro le affermazioni di Fisher, confermando la possibilità di avere cicli economici meno fluttuanti sia in durata che profondità, pochi rischi di bank runs, una grande riduzione dei livelli di debito pubblico e privato in tutta l'economia e la sostituzione di gran parte di quel debito con moneta di stato priva di debito emessa dal governo.




Inoltre, nessuno di questi benefici danneggia o sminuisce le funzioni utili e determinanti del sistema finanziario e bancario privato. In un ipotetico Piano di Chicago, le istituzioni finanziarie private continuerebbero a giocare un ruolo chiave fondamentale nel garantire un efficace sistema di pagamenti ai cittadini della nazione, facilitare un efficiente allocazione del capitale verso i suoi usi più produttivi, e favorire la relazione intertemporale di risparmi e investimenti fra famiglie e imprese. Il credito, soprattutto il credito socialmente utile che supporta le attività di investimento fisico reale, continuerebbe ad esistere. Tuttavia ciò che cesserebbe di esistere è la proliferazione di credito creato dal nulla, tramite l’iniziativa quasi esclusiva delle istituzioni bancarie private, per il solo scopo di garantire un’adeguata fornitura di denaro che può essere invece assicurata facilmente senza debiti, con l’intervento dello stato. Le banche comincerebbero insomma a svolgere la loro caratteristica mansione di intermediazione del credito, lasciando allo stato il compito di emettere l’intera massa di moneta circolante, che essendo appunto svincolata dal credito non sarebbe più caricata da un debito subito all’emissione, come avviene oggi.




A questo punto il documento potrebbe non essere di semplice comprensione per il lettore medio, data la natura complessa dei cambiamenti contabili che avvengono nello stato patrimoniale del bilancio sia del sistema bancario che del governo, attraverso la progressiva attuazione del Piano di Chicago. Un’analisi completa richiede infatti una profonda discussione del modello di contabilità e calibrazione utilizzato, e questo diventerà chiaro solo andando avanti nel documento. Ma riteniamo che almeno una presentazione preliminare dei principali cambiamenti contabili è essenziale per aiutare la comprensione di quello che segue. Nella figura 1 (vedi sotto) vengono riportate le modifiche del bilancio del sistema bancario preso nel suo complesso, che si verificano durante il periodo di transizione al nostro modello simulato. Come mostrato nello schema di sinistra della figura 1, il bilancio consolidato del sistema finanziario prima della realizzazione del Piano di Chicago è pari al 200% del PIL, con un patrimonio netto (equity) e i depositi pari rispettivamente al 16% e 184% del PIL. La colonna di sinistra degli attivi delle banche è costituita da titoli del governo pari al 20% del PIL, prestiti di investimento pari al 80% del PIL e altri prestiti (mutui, prestiti al consumo, prestiti di capitale circolante) pari al 100% del PIL.










L’attuazione del Piano di Chicago si presume che si svolga in un singolo periodo di transizione, che può essere suddiviso in due fasi distinte. Nella prima fase, come mostrato nello schema di bilancio centrale della figura 1, le banche chiedono un prestito al governo per procurarsi le riserve necessarie per coprire completamente i loro depositi. Come risultato sia la quantità di riserve che il credito del governo nei confronti delle banche aumenta del 184% del PIL. Nella seconda fase, come mostrato nello schema di destra della figura 1, la parte attiva del bilancio formata da tutti i prestiti bancari al governo (20% del PIL) e da tutti i prestiti bancari al settore privato ad eccezione di prestiti di investimento (100% del PIL), viene compensata e annullata insieme al credito del governo che si trova al passivo. Se per la cancellazione del debito pubblico si tratta di un’operazione diretta (una vera e propria partita di giro), per il debito privato invece il governo trasferisce i saldi attivi e passivi del bilancio in un particolare conto separato che deve essere utilizzato soltanto ai fini del rimborso dei prestiti bancari esistenti (Una volta ripagati tutti i debiti privati ancora in essere, il conto può essere tranquillamente chiuso ed archiviato).




Inoltre, le banche utilizzano una parte del loro patrimonio netto per mantenere il loro bilancio in linea con i requisiti di adeguatezza patrimoniale ufficiali (Accordi di Basilea), con il governo che si sobbarca il compito di integrare la differenza del 7% del PIL, iniettando credito supplementare alle banche. Nella versione definitiva dello stato patrimoniale nello schema di destra della figura 1 si evidenzia con una linea orizzontale nera più spessa la raggiunta rigorosa separazione tra la funzione monetaria e creditizia del sistema bancario. Il denaro circolante presente nei depositi rimane quasi invariato, ma ora è completamente sostenuto da riserve. Il credito in questa prima fase è costituito solo da prestiti di investimento, finanziati da un ridotto livello di patrimonio netto pari al 9% del PIL, e da ciò che è rimasto del credito del governo, 71% del PIL, dopo il riacquisto dei debiti privati da parte del governo e l'iniezione di credito supplementare da aggiungere al patrimonio netto delle banche, sotto forma di nuova capitalizzazione.



Nella figura 2 (vedi sotto) vengono riportate invece le modifiche al bilancio del governo. Gli schemi di bilancio ignorano le modifiche successive, non appena l'economia si avvicina ad un nuovo stato stazionario, ma si tratta in genere di piccole variazioni rispetto alle modifiche iniziali. In tutti gli schemi i valori quantitativi riportati sono arrotondati e rappresentano percentuali di PIL. La figura 2 illustra il bilancio del governo, che prima del Piano di Chicago consiste di debito pubblico per l'80% del PIL, con non specificati altri beni finanziari o reali utilizzati come attività del saldo contabile. L'emissione di credito dello stato alle banche pari al 184% del PIL rappresenta un grande nuova attività finanziaria del governo, mentre l'emissione di un'uguale quantità di riserve, in altre parole denaro, equivale al nuovo patrimonio netto del governo. La cancellazione dei debiti privati riduce sia il credito che il patrimonio del governo del 100% del PIL. Si presume che il governo tasserà sia famiglie e imprese per procedere alla patrimonializzazione del capitale sociale delle banche, prima ancora di iniettare materialmente questi fondi nei conti delle banche sotto forma di credito del governo. Questa operazione aumenterà sia il credito che il patrimonio netto del governo del 7% del PIL. Infine, la cancellazione del debito pubblico mantenuto dalle banche riduce sia gli attivi che i passivi del governo del 20% del PIL.








Per riassumere, la nostra analisi rileva che il governo è lasciato con un onere di debito netto molto più basso, in realtà addirittura negativo (cioè in attivo nei confronti del settore privato). Il governo guadagna una grande rendita di posizione a causa del diritto di emissione di denaro (signoraggio), nonostante il fatto che spenda una larga parte di questa rendita o diritto di signoraggio per effettuare le operazioni di riacquisto del debito privato. Questi riacquisti a loro volta implicano che il settore privato viene lasciato con un onere di debito molto minore, mentre i depositi rimangono invariati. I bank runs sono ovviamente impossibili in questo mondo. Tali risultati, le cui fondamenta analitiche verranno definite nelle parti successive del documento, supportano tre delle quattro istanze presentate di Fisher (1936) a favore del Piano di Chicago. L'istanza rimanente, riguardante la possibilità di avere cicli economici più sostenibili, verrà verificata verso la fine del documento, dopo avere sviluppato completamente l’intero modello.




Ma possiamo andare anche oltre, perché la nostra analisi di equilibrio generale mette in evidenza due ulteriori vantaggi del piano di Chicago. In primo luogo, nella nostra calibrazione del Piano di Chicago avremo incrementi a lungo termine di crescita economica, produzione e reddito intorno al 10%. Questo accade per tre ragioni principali. La riforma monetaria conduce ad una notevole riduzione dei tassi di interesse reali, dato che i livelli di debito netto inferiori conducono gli investitori a richiedere minori rendimenti sui prestiti forniti al settore pubblico e privato. La riforma consente regimi fiscali ed effetti tributari distorsivi molto inferiori, a causa dei favorevoli benefici forniti al bilancio del governo dal reale (e non solo ipotetico) utilizzo del diritto di emissione monetaria o signoraggio (nonostante la bassa inflazione). E infine conduce a minori costi di monitoraggio del sistema creditizio nazionale, perché le scarse risorse a disposizione non devono più essere spese per monitorare un flusso di prestiti complicatissimo, il cui unico scopo era quello di creare un’adeguata fornitura di denaro agli agenti economici.




Avendo visto come la totale quantità di moneta circolante venga ora garantita ed emessa facilmente senza debito dallo stato, il credito erogato adesso dalle banche servirà soltanto per finanziare le attività reali o l’acquisto di beni reali e non per scopi puramente finanziari o monetari. In secondo luogo, l'inflazione nella fase stazionaria dell’economia può scendere fino a zero senza problemi per la ritrovata efficacia degli strumenti di politica monetaria. Il motivo è che la separazione delle funzioni del denaro e del credito nel sistema bancario consente al governo di usare molteplici strumenti di controllo e numerosi criteri di intervento, tra cui una regola di crescita nominale del denaro che regolamenti l'offerta di moneta, una regola di adeguatezza patrimoniale in funzione anticiclica che controlla la quantità di prestiti concessi dalle banche e infine una regola del tasso di interesse che controlla il “prezzo” del credito offerto dal governo alle banche. Questa netta separazione e gestione centralizzata degli interventi di vigilanza consentirà sicuramente un migliore funzionamento di tutto il sistema rispetto all’attuale frammentazione e autoregolamentazione del settore bancario, che ha portato solamente al caos e all’incapacità di agire con efficaci strumenti correttivi.




Una cruciale implicazione di questa nuova riforma monetaria è che il fenomeno della trappola della liquidità non può più esistere, per due motivi. Primo, la quantità complessiva di denaro circolante nel settore privato può essere regolata e aumentata direttamente dalle autorità di politica monetaria, senza dipendere più dalla disponibilità delle banche a prestare fondi o nuovi soldi creati dal nulla. E in secondo luogo, perché il tasso di interesse sul credito del tesoro non è più in relazione con il costo opportunità di possedere denaro liquido sostenuto dagli investitori, ma piuttosto un normale tasso a debito accessibile soltanto alle banche che serve a stabilire a quale “prezzo” erogare linee di credito con lo scopo specifico di finanziare progetti di investimento concreti: al limite questo tasso può diventare negativo senza creare particolari problemi pratici. In altre parole, il limite inferiore zero non si applica a questo tasso, rendendolo quindi praticabile per mantenere uno stato stazionario dell'inflazione a zero senza più preoccuparsi del fatto che ciò condurrebbe anche la politica nominale dei tassi ad arrivare a zero o a valori addirittura negativi.




La capacità di vivere con una stato stazionario con un’inflazione significativamente minore risponde anche alle tante obiezioni, un po' confuse per la verità, di alcuni critici riguardo al monopolio esclusivo del governo della funzione di emissione del denaro, ovvero all’intero sistema fin qui descritto, e soprattutto alla considerazione secondo cui l'iniezione iniziale di nuovo denaro emesso dal governo sarebbe altamente inflazionistica. Non c'è nulla nella nostra teoria che supporta questa obiezione. E come vedremo nella seconda parte del documento, non c'è praticamente nulla neppure nella storia monetaria delle società antiche e delle nazioni occidentali che dia sostegno a queste critiche. La caratteristica principale del nostro modello teorico è che svela in modo abbastanza inequivocabile e palese la funzione chiave delle banche nelle economie moderne, che non è affatto il ruolo per certi versi incidentale e occasionale di intermediari finanziari tra i correntisti e i mutuatari, ma piuttosto il loro incredibile e assurdo privilegio di essere gli unici enti creatori e distruttori di denaro (soprattutto quando i governi inseguono raccapriccianti politiche di pareggio di bilancio, impedendo agli enti pubblici di fornire nuovi mezzi monetari ai propri cittadini).




L'importanza relativa di queste due caratteristiche dell’attuale sistema bancario può essere illustrata con un semplice esperimento o esercizio di logica. Immaginiamo di vivere in un'economia formata da due soli operatori: le banche e un unico gruppo omogeneo di agenti privati non bancari, che domanda una certa quantità di denaro per finanziare le proprie transazioni. In questa economia, considerata allo stadio originario di sviluppo, non c'è inizialmente alcuna attività di intermediazione del credito, eppure il ruolo delle banche rimane cruciale e fondamentale. La loro funzione è di creare dal nulla l'offerta di moneta attraverso la concessione di prestiti in denaro sulla base delle ipoteche dei beni reali degli agenti privati. Senza questa attività preliminare e propedeutica nessuno sviluppo economico sarebbe possibile in questa ipotetica società. Abbiamo quindi verificato che in un'economia siffatta il sistema funziona in modo molto simile a quello effettivamente descritto in questo documento, che dispone di diversi gruppi distinti di agenti privati non bancari, delle banche e di un governo che ha autonomamente e politicamente deciso di non utilizzare il suo diritto di signoraggio, tramite le rigorose politiche di austerità, consolidamento dei conti pubblici o addirittura, nei casi estremi, pareggio o surplus di bilancio.




Un modello realistico dovrebbe riflettere il fatto che in accordo con l’attuale sistema bancario non è necessario attendere che i depositanti si materializzino e rendano disponibili dei fondi prima che le banche stesse possano prestare o intermediare questi fondi. Piuttosto, le banche creano da sole i propri fondi, i depositi, nell'atto stesso di prestare. Questa evidenza può essere facilmente verificata nella descrizione del meccanismo di creazione del denaro riportato su molti documenti ufficiali delle Banche Centrali, da cui solo a titolo di esempio estrapoliamo due stralci. Berry (2007), che è stato un funzionario della Divisione Analisi Monetaria della Bank of England, ha affermato: “Quando le banche fanno prestiti, creano depositi supplementari per coloro che hanno preso in prestito i soldi”. Keister e McAndrews (2009), economisti presso la Federal Reserve Bank di New York, scrivono: “Supponiamo che una banca fornisce un nuovo prestito di $20 all’azienda X, che aveva già un conto di deposito presso la Banca A. La Banca A effettua il prestito accreditando il conto dell’azienda X di $20. La Banca A ha ora una nuova attività (il prestito fornito all’azienda X) e una passività supplementare (l'aumento del deposito dell’azienda X presso la banca A). Ma soprattutto, la banca A ha ancora le riserve (invariate) nel suo conto. In altre parole, il prestito all’azienda X non diminuisce in alcun modo le riserve possedute dalla banca A”. In pratica, la banca non presta mai le riserve (veri soldi o moneta ad alto potenziale) che essa già detiene presso la Banca Centrale, piuttosto crea nuovi depositi di denaro scritturale o bancario dal nulla (ex nihilo).




In altre parole, le passività delle banche non sono risparmi a livello aggregato o macroeconomico, anche se a livello microeconomico possono apparire tali. Il risparmio è una variabile di stato, che può spesso aggregarsi in un processo lento difficile da intermediare interamente ed efficacemente, e seguendo alla lettera un tale processo le banche non sarebbero in grado di erogare i prestiti, causando le rapide espansioni e contrazioni del credito che sempre più frequentemente vengono osservate nella pratica. Piuttosto, le passività bancarie sono una forma particolare di denaro che può essere creato e distrutto in un attimo, con un semplice clic su un computer di una banca privata. L'importanza critica di questo fatto non sembra essere stata percepita nella maggior parte dei testi di macroeconomia moderna che descrivono in particolare il sistema bancario e monetario, ad eccezione di pochi economisti e studiosi isolati.




Il nostro modello considera questa caratteristica propria delle banche in vari modi. In primo luogo, essa introduce degli agenti non bancari che sono principalmente vincolati a prendere in prestito denaro per il solo scopo di generare sufficienti depositi per effettuare le loro transazioni. Questo significa che spesso richiedono prestiti e contemporaneamente fanno depositi presso le banche, come accade molte volte nel mondo reale con famiglie e imprese. Secondo, il modello introduce agenti finanziariamente non vincolati che non sono costretti a prendere in prestito dalle banche. I loro risparmi sono costituiti da più attività tra cui investimenti relativamente stabili riferiti a beni immobiliari, titoli di stato e depositi. Questo significa che una vendita di attività in beni immobiliari da questi agenti verso agenti vincolati dal credito (o di titoli di stato alle banche) può comportare automaticamente la nascita di un nuovo credito bancario, e di conseguenza la creazione di nuovi depositi che vengono aperti al solo scopo di pagare quei beni. Terzo, anche per i prestiti convenzionali a copertura degli investimenti, la trasmissione avviene sempre dal prestito verso i risparmi e non viceversa. Quando le banche decidono di prestare di più a fini di investimento, a causa del maggiore ottimismo sulle condizioni del ciclo economico, non fanno altro che creare ulteriore potere d'acquisto per gli investitori accreditando i loro conti, ed è questo potere di acquisto che rende l'investimento, e quindi il risparmio, possibile.




Infine, il problema può essere ulteriormente chiarito analizzando la questione dal punto di vista dei depositanti. Assumeremo, sulla base delle evidenze empiriche, che la domanda di nuovi depositi è molto sensibile rispetto al tasso di interesse. Pertanto, se i depositanti, per un dato tasso di interesse, decidono di iniziare a depositare fondi supplementari presso le banche, in assenza di volontà o possibilità dei banchieri di fare nuovi prestiti aggiuntivi, il risultato finale sarebbe praticamente un’invariata quantità di depositi e prestiti. Il motivo è che le banche possono decidere di pagare un tasso di interesse leggermente più basso sui depositi, e di conseguenza questo sarebbe sufficiente a ridurre fortemente la richiesta di deposito senza variare materialmente i costi di raccolta dei fondi e quindi il volume dei prestiti. La decisione finale sulla quantità di depositi in denaro nell'economia è quindi quasi esclusivamente una scelta delle banche e si basa sul loro ottimismo o grado di fiducia riguardo le condizioni dell’economia. Mentre coloro che hanno necessità di credito si devono adeguare alle scelte delle banche, cosa che invece non avviene nel sistema descritto dal Piano di Chicago dove le banche fungono da semplici intermediari e si rendono disponibili a fornire i prestiti ove esistono le necessarie condizioni di garanzia sul rimborso, limitandosi a guadagnare sullo scarto di interesse fra i soldi prestati alle banche dal governo e quelli prestati dalle banche ai prenditori di fondi.




Il nostro modello omette infine completamente altre due grandezze monetarie: i contanti (cash) fuori dalle banche e le riserve delle banche detenute presso la Banca Centrale. Questo perché sono i soldi creati privatamente attraverso i depositi bancari a svolgere il ruolo centrale nell'attuale sistema monetario degli Stati Uniti, mentre il denaro emesso dal governo svolge un ruolo trascurabile quantitativamente e concettualmente. Ad ogni modo dovrebbe essere ormai appurato che il denaro emesso dal nulla dal governo e quello creato dal nulla dal settore bancario privato sono entrambe forme di moneta fiat, perché l'accettabilità dei depositi bancari per le transazioni commerciali e ufficiali è stata più volte decretata per legge, al pari della moneta emessa direttamente dal governo. Come spiegheremo nella seconda sezione, praticamente tutte le monete nella storia, compresi i metalli preziosi, hanno ricevuto la maggior parte o tutto il loro valore tramite una decisione sovrana del governo riguardo l’obbligo di accettabilità, piuttosto che dal loro valore intrinseco.




Uno studio sulla quantità dei contanti in valuta Dollaro USA detenuti fuori dalle banche rivela che alla fine degli anni novanta tale forma di circolante ammontava a circa il 5% del PIL per gli Stati Uniti, ma che il 95% di questi contanti era posseduto da stranieri o transato nell'economia sommersa. Questo significa che il contante fuori dalle banche in circolazione nell'economia ufficiale degli Stati Uniti è pari ad uno striminzito 0,25% circa del PIL, mentre potremo facilmente verificare e abbiamo già detto che le passività bancarie utilizzate come strumento di pagamento e transazione nell’attuale sistema finanziario degli Stati Uniti, compreso il sistema delle banche ombra, arrivano a circa il 200% del PIL. La vera moneta moderna sono quindi i depositi bancari elettronici, mentre i contanti sono solo uno strumento marginale di pagamento che ha davvero poca rilevanza all’interno del circuito economico, commerciale e finanziario di un paese.




Anche le riserve delle banche detenute presso la Banca Centrale sono generalmente trascurabili in dimensione, eccetto naturalmente dopo l'inizio della crisi finanziaria del 2008, quando la Banca Centrale ha dovuto iniettare immense quantità di riserve nei conti delle banche per salvare l’intero sistema. Ma questo elemento quantitativo è molto meno importante rispetto alla circostanza che le riserve non giocano praticamente alcun ruolo significativo nella determinazione degli aggregati monetari più ampi. Il motivo è che il "moltiplicatore dei depositi" descritto nei libri di testo universitari di economia, dove gli aggregati monetari sono creati e decisi su iniziativa della Banca Centrale attraverso un'iniziale iniezione di denaro ad alto potenziale nella sistema bancario che viene poi moltiplicato attraverso i prestiti successivi tra le banche, ribalta completamente l'effettivo funzionamento del meccanismo di trasmissione monetaria. Questo dovrebbe essere assolutamente chiaro sotto l’attuale regime di politica monetaria basato sull’obiettivo primario dell'inflazione (inflation targeting), in cui la Banca Centrale decide e controlla un tasso di interesse di riferimento e deve essere disposta a fornire riserve illimitate non appena le banche domandano riserve a quel tasso. Ma, come dimostrano altri studi, la disponibilità delle riserve della Banca Centrale non ha mai vincolato le banche e la loro attività creditizia neppure durante il periodo degli anni settanta e ottanta, quando la Banca Centrale aveva scelto ufficialmente come obiettivo di politica monetaria la dimensione degli aggregati monetari (monetary aggregates targeting).





Questi studi mostrano che gli aggregati monetari più ampi, che sono guidati da decisioni di prestito delle banche, hanno influenzato il ciclo economico, mentre gli aggregati monetari più piccoli (contanti e riserve) hanno avuto scarsa importanza. In altre parole, in ogni momento, quando le banche chiedono riserve, la Banca Centrale è obbligata a fornirle. Sulla domanda di riserve pertanto non viene imposto alcun vincolo e il moltiplicatore dei depositi è semplicemente, come sintetizzato bene dalle parole di alcuni brillanti economisti, un mito di fantasia che non ha mai funzionato e avuto riscontri pratici nella realtà. Ed è appunto per questo motivo che le banche private hanno mantenuto quasi completamente il controllo del processo di creazione del denaro. E questo naturalmente è anche il motivo per cui il quantitative easing, almeno nella forma utilizzata oggi che fornisce soltanto nuove riserve alle banche private
</DIV></DIV></DIV>
 

mototopo

Forumer storico
scrivi all'autore
questo grafico della Lira dal 1950 ad oggi (ricalcolandola dall'euro) dimostra che possiamo fare a meno dei BTP. Se torniamo ai cambi fluttuanti e torniamo a stampare moneta invece di vendere BTP torniamo nella situazione del 1971-1981 e come si vede non succede nessun guaio

1) tra il 1949 e il 1971 l'Italia aveva, come tutti gli altri paesi occidentali, una valuta inchiodata al dollaro, che a sua volta era inchiodato all'oro. Le valute quindi non fluttuavano rispetto all'oro e al dollaro (come si può vedere il cambio Lira/Dollaro era fisso). Dato che si era agganciato all'Oro quando c'era un disavanzo commerciale l'oro usciva dal paese e quindi nessuno poteva permettersi disavanzi cronici
E il debito pubblico ? lo si finanziava stampando moneta e tenendo dei controlli ai capitali per cui quando si emettevano titoli di stato rendevano meno dell'inflazione e non li voleva quasi nessuno. Se la gente però non li comprava la Banca d'Italia finanziava lei il governo, Se però esagerava si creava inflazione e pressione sul cambio, l'oro usciva, si alzavano i tasssi, si riduceva il credito l'economia rallentava ecc..

2) dal 1971 il dollaro fu sganciato dall'oro e tuttele monete occidentali fluttuavano tutte tra di loro. Dato che la Banca d'Italia poteva sempre finanziare lei il governo, questo era libero di stampare moneta senza il vincolo esterno dell'oro. Cosa successe alllora, il cambio andò a picco ? No, si svalutò contro dollaro, ma non molto (e non molto di più della sterlina e franco francese)

3) Questa situazione continuò fino al 1981, quando si "tagliò" il legame tra Bankitalia e Governo vietando alla prima di finanziare il secondo e obbligandolo lo stato ad andare a indebitarsi sul mercato vendendo BTP. Questo rese il cambio della lira più stabile ? No, il contrario come si vede. L'era del BTP è iniziata solo nel 1981, prima lo stato si indebitava poco e quando di si indebitava pagava poco perchè se nessuno gli comprava il debito Bankitalia lo finanziava


Clicca sull'immagine per ingrandirla



Clicca sull'immagine per ingrandirla


Clicca sull'immagine per ingrandirla

 

mototopo

Forumer storico
.













[ame="http://www.youtube.com/watch?v=7t6Z0tDuKPg&list=UUUSJaXY6mmf9AUoTE-9_t3A&index=6"]
mqdefault.jpg
29:01
pixel-vfl3z5WfW.gif
Moneta di Popolo contro banche e usura (3 di 5)marco saba835 [/ame]





caro iulius .se ti interessa senti il video di marco saba.guardiamo sempre la moneta.;);)s
come truffamo. molta piu' semplice ascoltare che leggere un post kilometrico,ciao
pixel-vfl3z5WfW.gif
 

mototopo

Forumer storico
quello che piu si avvicina alla realta',.modesto parere e' marco saba.poi ognuno ha le sue differenze, intregrabili e condivisabili con altre,ma l'importante e ' capire come lo mettono nel bombardone a tutti.
 

mototopo

Forumer storico
ultimo post e'x sottolineare che' vero' cio' che dice piero valerio sul contante fisico e riserva frazionaria,ma altrettanto vero che se parte la run bank ha ritirare i soldi,visto che la riserva e' solo 1% dei depositi,il primo 1% che arriva in banca ritira i suoi soldi,gli altri li rivedranno da qui' all'eternita',perche le banche dichiarano 99% di cio' che nn possiedono nella realta.e per stessa ammissione della fed,che nn pubblica gli aggregati monetari,perche nn utitli,ma in realta per nn far capire cosa sotto si celi veramente e quanti soldi sia di carta che di moneta fiat hanno emesso
 

mototopo

Forumer storico
Il giro dell'oca del debito pubblico

image.axd



di Giovanni Zibordi



I cosiddetti "Mercati", la nuova divinità iraconda e punitiva alla quale i governi si inchinano, sacrificando democrazie e popoli, hanno i loro simbolismi magici. Per esempio lo spread, che sorge inquietante sui cieli dei media come il pipistrello di Gotham City. E come ogni divinità che si rispetti, essi non amano la trasparenza né ammettono di venire studiati da altri che non siano i loro invasati sacerdoti. Tuttavia, basta andare oltre alle verità rivelate sulle sacre scritture contabili, oltre all'omelia quotidiana dei partiti a caccia di voti, spingendosi al di là della propaganda, per svelare la natura umana, troppo umana di una liturgia che poco ha di sacro e molto di profano.





Gli strali dei mercati, ad esempio, si sono recentemente attenuati grazie al riacquisto del governo greco, con i soldi del finanziamento UE da 10 miliardi, di suoi propri bonds, drenati dalle banche greche. Le banche greche, a loro volta, sono state obbligate a venderli, contro la loro stessa volontà, anche se quotando intorno ai 25 centesimi avranno a loro volta una perdita di 4 miliardi di euro che le costringerà presto a chiedere un nuovo salvataggio UE, in una spirale di assurdità senza fine. Ma il governo greco, viceversa, riaqcquistando i propri bond avrà un guadagno secco di 75 centesimi l'uno, perchè evidentemente li terrà fino alla loro scadenza naturale, quando cioè torneranno al loro valore nominale 100 (e visto che li terrà senza venderli, non scenderanno di prezzo).



Ricapitoliamo. Atene, per finanziare il suo deficit, vende inizialmente 10 miliardi di bonds, i quali principalmente vengono comprati da banche francesi e tedesche, che poi nel 2011 decidono di liberarsene. Come fare? Interviene la UE che spinge le banche greche ad acqcuistarli (allo stesso identico modo in cui le banche spagnole o italiane si sono riempite di titoli di stato del loro Paese). E oggi il Governo greco ricompra i suoi stessi titoli di stato, che aveva precedentemente venduto per finanziarsi. E con che soldi, dunque? Con quelli accreditati dalla UE e dalla BCE. Fantastico! Un giro dell'oca nel quale si ritorna sempre al punto di partenza (per chi pensa che esageri ho parafrasato qui la sintesi che ne fa il financial times.



Esi...


Inviato da iPhone

Pubblicato daMaurizio Barbero *****************Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su Facebook




Reazioni:

 

Users who are viewing this thread

Alto