Tassi, QE e carry trade (1 Viewer)

tontolina

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La Banca mondiale taglia le stime per gli emergenti: male Brasile e Russia

FRANCOFORTE – La Banca mondiale ha tagliato le sue previsioni di crescita dell'economia mondiale e dei Paesi in via di sviluppo, ma ritiene che questi dovrebbero adattarsi in modo meno traumatico al prossimo rialzo dei tassi d'interesse negli Stati Uniti di quanto non avvenne nel 2013 con l'annuncio della riduzione dello stimolo monetario. La reazione all'aumento dei tassi Usa resta comunque il principale rischio all'orizzonte dei Paesi emergenti, secondo il rapporto “Global Economic Prospects” pubblicato oggi dalla Banca.
La World Bank prevede ora una crescita mondiale nel 2015 del 2,8%, lo 0,2% in meno delle stime del gennaio scorso. Per i Paesi in via di sviluppo il taglio è più consistente, dello 0,4%, il che porta la previsione per quest'anno al 4,4% con una risalita della crescita rispettivamente al 5,2 e al 5,4 nei prossimi due anni.

Questo è il quarto anno consecutivo di crescita «deludente» per i Paesi in via di sviluppo, secondo il rapporto, nonostante un periodo di abbondante liquidità internazionale e di alti prezzi delle materie prime che molti di questi Paesi esportano.


Fra le grandi economie emergenti, i cosiddetti Bric, l'andamento è molto variato:
la Cina sta attraversando un rallentamento controllato dalle autorità, ma mantiene un'espansione sopra il 7%, ed è stata superata dall'India (che nel 2015 crescerà del 7,5%), dove sono state messe in atto importanti riforme strutturali.
Contrazione del prodotto interno lordo invece per la Russia (-2,7%), colpita dal crollo del prezzo del petrolio, dove le stime sono state però ritoccate al rialzo, in parte grazie al parziale rimbalzo delle quotazioni del greggio, in parte per gli effetti della forte svalutazione del rublo.

Drastico taglio invece per il Brasile, che subirà una contrazione dell'1,3%, mentre a gennaio la Banca mondiale vedeva una crescita dell'1%. Le politiche che il Governo sta ora mettendo in atto per correggere gli errori del recente passato sono necessarie, ma avranno un impatto restrittivo nel breve termine.



Il rialzo dei tassi negli Stati Uniti dovrebbe, in media, avere un effetto meno negativo delle turbolenze prodotte dal cosiddetto “taper tantrum” del 2013. Si tratta, spiega Franziska Ohnsorge, economista della Banca e principale autore del rapporto, di un rialzo dovuto alle migliori condizioni dell'economia americana, il che è un vantaggio per le economie emergenti, e non a una restrizione inattesa, come avvenne nel 2013. Le ripercussioni della restrizione monetaria negli Stati Uniti possono essere fra lo 0,8% e l'1,8% del pil di minor afflusso di capitali, a seconda di come gli altri mercati avanzati (eurozona, Gran Bretagna, Giappone) risponderanno.

La politica monetaria molto accomodante della Banca centrale europea, sostiene Ohnsorge, dovrebbe in parte compensare la restrizione negli Usa.

Le medie naturalmente nascondono situazioni molto diversificate. Secondo la Banca mondiale sono maggiormente a rischio i Paesi che già ora sono alle prese con più gravi vulnerabilità e prospettive di crescita deboli. Per i mercati emergenti esportatori di materie prime che stanno avendo difficoltà ad adattarsi a prezzi ora più bassi in maniera persistente, o per i Paesi la cui politica economica è incerta, un rallentamento dei flussi di capitale dall'estero complicherebbe ulteriormente le cose.
 

tontolina

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.....................la Bundesbank abbia cominciato a comprare obbligazioni con scadenza sempre più breve, abbassando la maturity della carta e quindi indebolendo il canale di bilanciamento del portafoglio del QE di Mario Draghi. Non a caso, nonostante il miglioramento di alcuni dato macro Usa (come vendite al dettaglio e occupazione), il cross euro/dollaro è rimasto al rialzo. La Buba, infatti, ha ridotto la media ponderata sulla scadenza dei suoi acquisti di Bund, scendendo da 8,1 anni di marzo ai 5,7 anni di maggio, in netto contrastato con il resto dell’eurosistema che preso nella sua interezza ha una media di 8 anni circa. E se i rendimenti dell’Europa core salgono e diventano più volatili, il portafoglio di acquisti della Bce all’interno del programma di QE ha effetti molto indeboliti





Ieri, tra le 9.30 e le 9.31, il mercato azionario Usa ha vissuto il rialzo più forte dalla fine del 2011, con il Dow Jones su di 150 punti e il Nasdaq subito a +1%. Accidenti, cos’era successo in America o nel mondo per scatenare un’euforia tale? La Fed, forse? Certo, a botta calda magari il comunicato di mercoledì sera poteva prestarsi a interpretazioni e dormendoci sopra i traders hanno capito che anche a settembre non ci sarà nessun aumento dei tassi. Ma, essendo questo scontato, può giustificare 150 punti di rialzo in apertura? Il perché io definisca questa scelta scontata è presto detto. Anzi, ce lo dicono questi due grafici,


i quali ci mostrano come nessuna dinamica macro possa orientare la Federal Reserve verso il primo aumento, stante questa situazione sugli indici “surprise”. Tanto più che uno dei dati più importanti, l’indice Philly Fed, ieri ha inviato segnali un po’ discordanti sullo stato di salute dell’economia. Pur essendo rimbalzato a 15.2 contro le aspettative di 8.17 e dopo sei mesi di delusioni consecutivi (comunque al di sotto del livello dello stesso periodo del 2014), l’occupazione è crollata e il sotto-indice di “price-paid” è letteralmente esploso al livello più alto dal 1973, schiantando di converso quello dei “margini”, come ci mostra il grafico.

Ora, io sarò anche pessimista ma leggere in questo un segnale di forza mi pare azzardato. Forse allora è stata la Grecia a far salire Wall Street? Difficile, visto che l’Eurogruppo non era nemmeno iniziato e, anzi, a ridosso dell’apertura dei mercati americani, il ministro delle Finanze austriaco, Hans Joerg Schelling, dichiarava che “il gioco della Grecia è finito”. Insomma, non proprio un’apertura di credito all’ipotesi di un accordo in extremis. Quindi, niente Grecia. Forse il Giappone, visto che per oggi è atteso il punto sull’Abenomics da parte di governo e Bank of Japan? Difficile, visto che il Nikkei aveva perso l’1,13% nell’ultima sessione. Magari allora la Cina? QE in arrivo da parte della Banca del Popolo? Forse sì ma Shanghai all’alba si era schiantata del -3,66%. Forse gli utili di Oracle allora, capaci di spedire il Nasdaq ai massimi storici? Difficile, visto che i conti presentati erano sotto le previsioni. Insomma, perché quell’esuberanza a Wall Street, capace di contagiare anche i mercati europei prima della chiusura delle contrattazioni?
Semplice, riflesso pavloviano che ha ricordato a tutti che non viviamo più in un mondo guidato da price discovery, fair value e mark-to-market ma nell’iperuranio del mark-to-QE. Pensiamo alla Grecia. Nonostante l’ipotesi di default sia tutt’altro che non contemplabile, l’euro da inizio mese si è apprezzato del 4% sul dollaro. Debolezza del dollaro, almeno per quanto riguardo il picco al massimo da un mese raggiunto ieri (1,14 contro l’1,05 di marzo), dovuta alla mitezza della Fed rispetto al rialzo dei tassi? Forse ma fino all’altro giorno allora, come lo si spiega? Forse perché la Grecia non è un vero problema, anzi non è affatto rilevante per quanto riguarda la moneta unica: l’addio di Atene, nei fatti, significa scaricare un po’ di debito dai libri contabili dell’eurozona. Certo, l’aumento dei rendimenti nei bond governativi dell’eurozona ha reso l’euro attraente relativamente al dollaro per alcuni investitori e l’attuale surplus di conto corrente europeo (18,6 miliardi di euro a marzo contro i 30,5 di inizio anno, stando a dati della Bce) sta incoraggiando gli investitori a ritornare con i loro capitali nell’area, tramutando momentaneamente l’euro in un bene rifugio ma come si può pensare che queste dinamiche possano essere la base strutturale di una moneta che si apprezza e di un’Ue che diviene terra promessa? Questo grafico ci mostra come, di fatto, da quando è entrata in campo la cosiddetta “austerity”, le ratio debito/Pil siano andate letteralmente in orbita.

Come spiegarlo? Forse, può pensarci quest’altro grafico.

Il quale ci mostra come la Bundesbank abbia cominciato a comprare obbligazioni con scadenza sempre più breve, abbassando la maturity della carta e quindi indebolendo il canale di bilanciamento del portafoglio del QE di Mario Draghi. Non a caso, nonostante il miglioramento di alcuni dato macro Usa (come vendite al dettaglio e occupazione), il cross euro/dollaro è rimasto al rialzo. La Buba, infatti, ha ridotto la media ponderata sulla scadenza dei suoi acquisti di Bund, scendendo da 8,1 anni di marzo ai 5,7 anni di maggio, in netto contrastato con il resto dell’eurosistema che preso nella sua interezza ha una media di 8 anni circa. E se i rendimenti dell’Europa core salgono e diventano più volatili, il portafoglio di acquisti della Bce all’interno del programma di QE ha effetti molto indeboliti ma gli investitori tornano a comprare Europa. Insomma, la Buba sta acquistando coupon “high cash”, focalizzandosi su scadenze di più breve termine ma se la Grecia fa default, i Bund a lunga scadenza potrebbero diventare ancora più cari, quando Weidmann dovrà intervenire sul mercato per comprarli e dimostrare al mondo che il contagio del “Grexit” non c’è.
E l’euro potrebbe indebolirsi.

No, perché la Grecia non conta.

Anzi, nel magico mondo del mark-to-QE è soltanto un peso.
Il cui addio si festeggia a Wall Street con 150 punti di rialzo in apertura e che in chiusura, quando l’Eurogruppo aveva ufficialmente sancito il suo fallimento, festeggiava con il Dow su di 180 punti il Nasdaq al massimo storico.

Ma anche con l’oro che rompeva quota 1200 dollari, però.
Atteggiamento vagamente schizofrenico?

Tranquilli, è il nuovo libero mercato. Per tutto il resto, c’è la Fed. Non ci credete? Male, perché sempre ieri lo ha certificato l’FMI nella persona di Jose Vinals, capo del dipartimento capital markets, il quale ha dichiarato quanto segue alla Reuters a margine di un incontro a Londra: “La questione ora è cosa fare.

Dal mio punto di vista l’unica cosa che può essere fatta in tempi di illiquidità dovuta a sell-off è che le Banche centrali tornino ad essere market makers di ultima istanza”.

Et voilà, il QE perenne è servito.

L’unico potenziale game-changer?
Se per caso la riunione d’emergenza che la Bce ha fissato per oggi per discutere dei fondi ELA verso le banche greche dovesse risolversi in un niente di fatto, magari a Cina e Russia potrebbe balenare l’idea di intervenire nel weekend per consentire agli istituti ellenici di aprire gli sportelli lunedì..
 
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tontolina

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ADUC - Avvertenze - Editoriale - La bomba della liquidità nei mercati finanziari è carica

La bomba della liquidità nei mercati finanziari è carica

Editoriale di Alessandro Pedone
10 giugno 2015 12:02






Sta facendo discutere, fra gli addetti ai lavori del settore finanziario, la recente presa di posizione di Nouriel Roubini, relativa al paradosso della liquidità che potrebbe trasformarsi in una bomba innescata, pronta a scoppiare, nel momento in cui matureranno le condizioni sui mercati finanziari.
Qualche mese fa abbiamo recensito un bel libro (“Previsioni”, di Mark Buchanan) che è stato molto sottovalutato dal circuito mediatico, probabilmente perché a scriverlo non è stato un autore inserito nel giro accademico degli economisti, ma un fisico.
Una delle tesi principali del libro è che le fondamenta delle teorie economiche dominanti, ovvero il concetto di equilibrio tra domanda ed offerta, è totalmente sbagliata. L’equilibrio domanda-offerta, in realtà, è solo un concetto teorico che non si manifesta quasi mai nella pratica. Nella realtà abbiamo situazioni più o meno instabili esattamente come con il clima meteorologico. La condizione “normale” è l’instabilità, non l’equilibrio.

Ci sono alcune condizioni che favoriscono manifestazioni di instabilità particolarmente forti. L’eccesso di liquidità è senza alcun dubbio una di queste.

In altre parole, se noi avessimo una visione teorica dei mercati finanziari più aderente a quella che è la realtà, potremmo avere anche strumenti di gestione e prevenzione delle grandi turbolenze nei mercati finanziari così come abbiamo, in parte, strumenti di gestione e prevenzioni dei grandi fenomeni atmosferici come uragani e simili.
Purtroppo, al contrario, abbiamo i principali organi di controllo dei mercati finanziari (cioè le banche centrali) che stanno creando le condizioni affinché si verifichino forti turbolenze.
E’ un po’ come se la Protezione Civile modificasse le temperature dell’aria artificialmente, magari con lo scopo di favorire l’agricoltura, ma non si rendesse conto che così facendo favorisce la formazione di uragani.

Tornando a Nouriel Roubini, l’economista si è guadagnato una certa fama nel settore finanziario per aver in qualche modo “previsto” la crisi del 2008. Sulla base di questa “fama” (viene chiamato anche Dr. Doom, cioè Dr. Destino) ha creato un po’ la sua carriera professionale e con questa sua nuova presa di posizione da cui abbiamo preso spunto, ci riprova ancora.

La tesi di Roubini è assolutamente sensata ed a noi sembra una “facile previsione”.
Cerchiamo di spiegarla meglio per i non addetti ai lavori.
Le banche centrali hanno immesso (in USA, UK, Giappone ed altre) e stanno immettendo (in Europa) una quantità impressionante di liquidità nel sistema finanziario.
La base monetaria negli USA è quadruplicata rispetto ai livelli pre-crisi.
In pratica le banche centrali comprano obbligazioni con denaro che prima non esisteva e quindi immettono nuovo denaro nel sistema. Con questo nuovo denaro si comprano altri titoli.
Così tanta nuova moneta nel sistema crea ovviamente inflazione, ma poiché il denaro, in larghissima parte, rimane nel sistema finanziario, l’inflazione è sul prezzo dei beni finanziari (obbligazioni ed azioni) e non sui beni e servizi nel mondo reale.

Tutta questa massa di liquidità crea un paradosso.
Un eccesso di denaro nel sistema finanziario può rendere più difficile, in determinate circostanze, riuscire a negoziare i titoli per uno squilibrio troppo forte fra domanda e offerta. Espresso in modo sintetico e paradossale: troppa liquidità crea mercati illiquidi (1). Ecco che ci ricolleghiamo a quanto abbiamo accennato in relazione al libro di Buchanan. Se c’è tantissimo denaro nel sistema, ma tutto il denaro è orientato in fortissima prevalenza in una direzione, non si riesce a formare il prezzo perché non c’è adeguata quantità nella direzione opposta. Immaginiamo, ad esempio, il momento nel quale i mercati si formeranno la convinzione che i tassi siano destinati a salire, magari perché le banche centrali smetteranno di immettere liquidità nel sistema.
Tutti vorranno vendere obbligazioni, ma chi comprerà?
I prezzi crolleranno rapidissimamente, ma faticheranno a trovare un equilibrio proprio per l’eccesso di denaro che è stato immesso precedentemente nel sistema e che porterà ad un eccesso di persone che in quel momento vorranno uscire.
In breve: l’eccesso di moneta immessa dalle banche centrali sta ponendo le condizioni per incrementare gravemente l’instabilità dei mercati finanziari, li sta rendendo, paradossalmente, meno liquidi di prima.

Nel suo articolo Roubini ricorda alcuni episodi recenti che dovrebbero fungere da ammonimento rispetto a ciò che potrebbe accadere in futuro. Nel maggio del 2010 avvenne ciò che è passato alla storia come “flash crash”, quando, nel giro di mezz’ora i principali indici azionari americani crollarono del 10% per poi recuperare rapidamente.
Nel mondo obbligazionario, qualcosa di simile avvenne nella primavera del 2013 quando Ben Bernanke, allora capo della FED, la banca centrale degli USA, fece capire ai mercati che il così detto QE (immissione di soldi nel sistema, semplificando brutalmente) sarebbe terminato a breve: nel giro di pochissimo i tassi schizzarono di 100 punti base. Una cosa che non si era mai vista prima.
Lo scorso ottobre nel giro di pochi minuti il rendimento dei titoli di stato USA salirono di 40 punti base, una cosa che statisticamente avrebbe dovuto essere sostanzialmente impossibile.
Questa carrellata di eventi “improbabili” potrebbe concludersi con l’episodio di poche settimane fa relativo ai rendimenti del Bund tedesco che nel giro di pochi giorni è passato a 5 punti base ad oltre 80 punti base.

Il problema su cui Roubini cerca di far soffermare la nostra attenzione è che anche i mercati considerati i più liquidi del mondo come quello dei titoli di stato di grandi paesi occidentali o il mercato azionario USA, possono non essere più sufficientemente liquidi per far fronte all’impressionante aumento di denaro che è stato immesso nel sistema, specialmente quando tutta questa massa monetaria tende a muoversi nella stessa direzione (2).


Quali possono essere le conseguenze di questo grave incremento dell’instabilità strutturale
?
Tutti coloro che si occupano di mercati finanziari professionalmente sanno che, prima o poi, i mercati invertiranno la loro direzione. Non possiamo sapere quando ciò avverrà, ma sappiamo che ciò avverrà. Ebbene, quando ciò avverrà, è ragionevole attendersi che i movimenti saranno molto più violenti di quelli che abbiamo registrato fino ad oggi.
Una “facile” previsione che possiamo abbozzare è la seguente: se le banche centrali non saranno bravissime nel gestire le aspettative, è probabile che assisteremo al più grande crollo del prezzo del bund tedesco che sia mai stato registrato dalla storia dei mercati finanziari.
In generale, potremmo assistere ad un aumento della volatilità molto forte un po’ su tutti i mercati.
Per evitare questa turbolenza, le banche centrali dovrebbero riuscire a ritirare la liquidità molto gradualmente riuscendo a gestire le aspettative degli investitori affinché non si precipitino a vendere. Si tratta di un’operazione non impossibile, ma difficilissima.

Per i piccoli risparmiatori, che poi sono il tipo di lettore al quale prevalentemente ci rivolgiamo su questo sito, il messaggio forte e chiaro che vogliamo far arrivare è quello di cercare di evitare di trovarsi nel mezzo della prossima turbolenza finanziaria. Già adesso i prezzi della maggioranza degli strumenti obbligazionari sono chiaramente folli. Potranno continuare ad esserlo anche per molto tempo, a causa del comportamento delle banche centrali. Ma ciò che dobbiamo domandarci è: quali sono i vantaggi ulteriori che percepisco tenendo i soldi in obbligazioni che rendono lo zero virgola, rispetto ai rischi che corro nell’ipotesi in cui vi sia una turbolenza finanziaria?


Note:
(1) Si parla di mercati illiquidi quando è difficile far incrociare la domanda con l’offerta, solitamente a causa del fatto che il quantitativo di titoli offerti dal quel mercato è troppo basso rispetto alle necessità.

(2) Anche altri fattori stanno contribuendo ad aumentare l’instabilità dei mercati finanziari. Uno dei più importanti sono le negoziazioni computerizzate, cioè quelle che partono automaticamente sulla base di software preimpostati.
Questo è un altro grave problema che dovrebbe essere affrontato, ma che esula dal tema di questo articolo.
 

tontolina

Forumer storico
America oggi. La regia non è di Altman ma del duo Obama-Fed. Ed è un horror

Senza l’America chi si occupa di economia e finanza vivrebbe una vita decisamente più grigia e grama. Loro, invece, sanno sempre darti quel qualcosa in più, quella sottile sensazione di presa in giro che trasforma uno sterile mondo di numeri in Disneyland. Partiamo da qui,

ovvero dal fatto che, nonostante la narrativa ci dica che sono solo le aziende petrolifere ad avere qualche rogna, gli ordinativi industriali esclusi i trasporti sono crollati di un sobrio 7,5% anno su anno, ovvero il peggior dato dal 2009, recessione piena.
E’ l’ottavo calo mensile consecutivo, la striscia più lunga nella storia al di fuori dei cicli ufficiali di recessione.
A livello mensile c’è stato sì un aumento dell’1,8% ma per un paio di motivi. Il primo, la solita revisione al ribasso delle letture storiche e poi un bel +21% nelle spedizioni di aerei da difesa! Warfare, il moltiplicatore keynesiano per antonomasia! Peccato che la ratio scorte/consegne sia ai massimi ciclici.Ma c’è di più, perché ieri è stata davvero un gran giornata per Zio Sam. Come ci mostra questo grafico,

dopo il rimbalzo del gatto morto di giugno, il dato occupazionale ADP ha segnato solo 185mila unità contro le 215mila attese, peggior delusione delle aspettative da marzo e il dato più debole dal primo trimestre del 2014. Insomma, parliamo di un 20% in meno rispetto alla lettura di 232mila di un anno fa e il dato di luglio più basso dal 2013: tutti segnali chiari di un aumento dei tassi in arrivo a settembre.


Già, come d’altronde ci conferma anche quest’altro dato, ovvero che ieri la BEA ha confermato come a giugno il deficit commerciale internazionale degli Usa sia salito del 7,1%, passando dai 40,9 miliardi di dollari di maggio (dopo la revisione, of course) a 43,8 miliardi, con export in calo e importazioni in crescita. E come ci mostra questo grafico,

al netto del petrolio, il deficit commerciale Usa è sulla buona strada per sorpassare i suoi massimi storici.
Ma in America ci sono anche persone che l’economia la prendono seriamente, gente che non sta a aggiustare due, tre volte a livello stagionale un dato per farlo sembrare ciò che non è ma sente il polso della nazione. E’ il caso di Gallup, principale istituto demoscopico del Paese, che la scorsa settimana ha interpellato per il suo ultimo sondaggio 15.217 adulti statunitensi chiedendo loro un report sulle loro spese personali quotidiane, tracciando una sorta di pattern. Come ci mostra il grafico,

luglio è stato il terzo mese di fila in cui l’americano medio ha speso meno di quanto fatto 30 giorni prima, una conferma indiretta che se gli Usa non sono in recessione, certamente non stanno crescendo. Di più, sui primi 7 mesi di quest’anno, 5 hanno registrato un calo annualizzato delle spese per consumi. Peccato che questa voce pesi solo per il 70% del Pil Usa.

Ma come vi dicevo all’inizio dell’articolo, l’America è fantasia e creatività, non aride statistiche e percentuali. Gli Usa sono quelli della “nuova economia” (oddio, l’ultima volta che hanno parlato di “new economy” non è finita benissimo) e questa grafica ce lo conferma.

Il Paese degli unicorni esiste! Come vedete, queste solo le principali 10 startups con un valore di almeno 1 miliardo di dollari, una classifica guidata da Uber, il quale la scorsa settimana ha reso nota la sua nuova valutazione record di 51 miliardi (l’anno scorso in questo periodo ne valeva 17!) e a cui si accodano altri trucchetti di marketing spacciati per modelli di business.
Bene, queste dieci aziende hanno una valutazione privata combinata di 156 miliardi di dollari, a fronte di entrate per 4 miliardi e solo 19.500 impiegati! Insomma, esiste un universo parallelo – di unicorni – dove la la ratio storica P/S è di 39x e ogni impiegato vale 8 milioni di dollari! Miracoli della Fed e del parco buoi.
Anche perché questo altro grafico,

ci mostra il “valore” degli impiegati di alcune blue chips statunitensi.

In cima alla classifica, manco a dirlo, Facebook e Apple, il cui valore medio per dipendente è rispettivamente di 22,5 e 6,5 milioni di dollari,
mentre sul fondo abbiamo Caterpillar, Boeing e McDonald’s, il cui impiegato medio è stimato in meno di 1 milione di dollari, addirittura solo 200mila per il gigante della ristorazione fast-food. I
nsomma, chi lavora presso un sito che ti fa mettere “like” sulle foto delle vacanze di tua cugina o presso un costruttore di telefonini è il top, gente che produce escavatori, trivelle, aerei per spostarsi nel mondo o ti garantisce un pasto con meno di 5 dollari è in fondo alla catena alimentare del market value.

E non tirate in ballo il fatto che Facebook fa profilazione, interagisce con altri, ha banner e pubblicità on-line, crea cluster e fa indotto: sono pippe, l’economia reale è altra cosa, soprattutto nell’ex potenza manifatturiera chiamata Usa. Una valutazione simile sarebbe giustificabile solo se passasse dettagli personali degli utenti alla NSA..
Tanto che, al netto di tutto questo, non vi stupirete se, come ci mostra questo grafico basato su uno studio del Wall Street Journal,

il 65% degli americani pensi che la nazione sia sul binario sbagliato, il dato più alto dal novembre 2014 e non distante dai massimi di altri periodi di storico malcontento.
Nel maggio del 1992, quando Ross Perot lanciò la sua candidatura indipendente alla Casa Bianca, il 71% degli americani parlava di direzione sbagliata per la nazione, mentre nel 2007, quando la frustrazione verso George W. Bush stava toccando i massimi, la quota era del 63%.
Di più, stando all’ultima rilevazione effettuata dal quotidiano finanziario, il 24% degli interpellati ha detto che l’economia potrebbe peggiorare nel prossimo anno, su dal 17% di dicembre.
L’America vera, la “Main street” che ha visto distruggere la classe media dalle follia di Wall Street, di Obama e della Federal Reserve, è stanca. E temo non passerà molto tempo prima che lo dimostri, nonostante un presidente democratico (solo per appartenenza di partito) e di colore.
Sono Mauro Bottarelli
 

tontolina

Forumer storico
E’ UFFICIALE: IL QUANTITATIVE EASING E’ UN BLUFF!

Scritto il 20 agosto 2015 alle 11:00 da icebergfinanza
Sia ben chiaro loro lo sapevano dall'inizio, i loro uffici studi lo hanno scritto più volte. il quantitative easing, la politica monetaria attuale delle banche centrali non serve a nulla, non porta alcun beneficio all'economia reale. Non lo dice un blogger qualunque come il sottoscritto, ma due pesi massimi della storia dell'economia come Friedman e Galbraith...BCE ...
 

tontolina

Forumer storico
Ma lei è insopportabile, non può sempre evidenziare gli aspetti negativi di questa ripresa, in fondo l’Italia sta crescendo dopo anni di recessione e depressione economica, suvvia.
Torno a ribadire per l’ennesima volta che solo il necessario ottimismo istituzionale può nascondere la realtà, una realtà che vede il nostro Paese crescere dello zero virgola venticinque annualizzato, in mezzo ad un ambiente economico che in realtà è il migliore dei mondi possibili.
Politica monetaria espansiva, tassi a zero, quantitative easing, petrolio ai minimi da anni e in procinto di fare nuovi minimi e una svalutazione dell’euro superiore al 10 %. Per non parlare del debito pubblico, della deflazione e della disoccupazione smascherata dal gioco delle tre carte denominato “jobsact”.
Sino a quando coloro che hanno creato la crisi e stanno segnando la rotta per uscirne usando gli stessi fallimentari strumenti, non capiranno che è una crisi di domanda e dalla domanda bisogna ripartire, nessuna speranza.
Nel frattempo la svalutazione brutta e cattiva, quella che a noi non è concessa perché prima dobbiamo fare le riforme sbagliate, va di moda ovunque, come durante la Grande Depressione del ’29 quando Stati Uniti ed Inghilterra svalutarono pesantemente le loro monete e misero dazi.
Ma torniamo in America e al dollaro perché è da li che verrà la nuova crisi, dalla sua ritrovata forza di lungo termine.
Prima però non possiamo non passare dall’ennesima sorpresa che arriva questa volta dal Giappone…
TOKYO – L’economia del Giappone si è contratta nel secondo trimestre del 2015 dello 0,4% su base congiunturale e dell’1,6% su base annualizzata. Lo rende noto il governo giapponese, confermando le previsioni su un rallentamento del’economia, dovuto a bassi consumi, esportazioni e investimenti. Il rallentamento rende più probabili nuove misure di stimolo dell’economia da parte della Banca centrale giapponese nei prossimi mesi.
japan-gdp-growth.png

Thanks to Trading Economics

E’ abbastanza chiaro ora su quello che sta accadendo, dopo che in Giappone è in atto il più colossale esperimento di quantitative easing della storia, con il raddoppio della base monetaria?
Via WSJ Blog facciamo una rapida sintesi …
5 Takeaways from Japan’s GDP Data – WSJ Blogs

Le esportazioni ad un tasso annualizzata del 16.5%, verso la Cina sono diminuite dell’11% su base annua.
Il consumo delle famiglie in Giappone è sceso del 3,1% su base annua nel trimestre.
La crescita nel primo trimestre del 2015 è stata rivista al rialzo al 4,5% su base annua, dopo l’1,4% di crescita annualizzata nel quarto trimestre del 2014. Due trimestri di crescita seguiti a due trimestri di contrazione. In breve, il Giappone ha avuto problemi a trovare un percorso di crescita costante.
I dati del PIL hanno mostrato una ripresa dei redditi da lavoro dipendente, il primo in sei trimestri.
Un nuovo QE e stimoli fiscali all’orizzonte, ovvero sempre il solito semolino.
Quindi tempo qualche giorno e via a svalutare in maniera esponenziale tirandosi dietro tutta l’Asia, tutti contro tutti aspettando il momento della verità.
La sensazione è che l’Asia sia come un’enorme camera che si sta riempiendo di gas, manca solo la scintilla finale.
Date un’occhiata qui sotto…
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E da novembre che suggeriamo di stare lontani dal rendimento ad alto rischio e manca ancora l’ultimo pezzo del puzzle, quello energetico.
Venerdì qualcuno si è emozionato perché in America la produzione è salita come non si vedeva da mesi…
La produzione industriale degli Stati Uniti è salita di nuovo in luglio, dopo l’aumento di giugno, arrivato dopo sei ribassi di fila, segno di maggiore forza del settore manifatturiero. Secondo quanto reso noto dalla Federal Reserve, la produzione industriale è salita dello 0,6%. Gli analisti attendevano un aumento dello 0,4%. (…) Da segnalare che la produzione nel settore manifatturiero, la maggiore componente del dato generale, è cresciuta dello 0,8%, il rialzo maggiore da novembre. Ha fatto da traino l’aumento del 10,6% del settore auto. La produzione nel settore minerario, seconda maggiore componente, è cresciuta dello 0,2%. In ribasso dell’1% la produzione di utilities (acqua, luce e gas).
Peccato che nessuno si curi delle revisioni, sensibili revisioni dei mesi precedenti ma soprattutto che è solo il settore auto “subprime” ovvero a debito, a leva che traina questo rialzo della produzione.




Thanks to Zerohedge

Va tutto bene … avanti così!
 

tontolina

Forumer storico
IN PASSATO, I RIMEDI GUIDATI DAL PANICO DEI BANCHIERI CENTRALI PLACAVANO IL PANICO DEI MERCATI; ADESSO, I MERCATI TREMANO PERCHE' AVVERTONO IL PANICO DEI BANCHIERI CENTRALI PT.1


In data 19 Gennaio 2015, scrivevo questo (clicca qui):
Successivamente, scrivevo questo (clicca qui e qui) nonché questo ( clicca qui, qui, qui qui, qui).
In questi giorni di forte tensione sui mercati, sembra che anche i più ottimisti se la siano data a gambe levate.
Ma chi sono gli ottimisti? Prima di rispondere a questa domanda, sarebbe opportuno guardare alle azioni intraprese dalle Banche Centrali nel recente passato.
Cosa hanno fatto? Hanno fatto di tutto per azzerare i tassi di mercato e comprimere i rendimenti dei titoli di stato e corporate;
più i tassi si comprimono, più gli investitori-risparmiatori che non voglio rischiare nulla (ma oltre una certa soglia il nulla è relativo) preferiscono la liquidità;
nel frattempo, gli ottimisti più avvezzi al rischio investono in borsa e quelli meno avvezzi -presentanti una propensione al rischio contenuta sì ma non nulla- in obbligazioni.

Alle prime forti correzioni degli indici
-sempre più decorrelati nel breve dai dati macro- cresciuti sotto la spinta di una liquidità “artificialmente” ivi convogliata dalla fuga dall'obbligazionario presentante rendimenti zero o addirittura su alcune scadenze negativi, rendimenti -lo ricordiamo- non pienamente riflettenti i profili di rischio assunti tanto nel segmento corporate quanto in quello sovrano, gli investitori liquidano le proprie posizioni, trovandosi dinanzi ad un bivio:
investire in obbligazioni (e/o nuovamente in azioni)
o mantenersi liquidi.
Sceglieranno la prima opzione solo
qualora dovessero ritenere che il prezzo delle obbligazioni continuerà a salire (quindi i rendimenti continueranno a scendere) o che i mercati azionari vivranno una nuova fase toro;
opteranno per la seconda in caso contrario, contando di rientrare sull' obbligazionario/azionario solo in un momento successivo.



Sul versante obbligazionario,
alcuni usciranno con ricche plusvalenze in conto capitale che, verosimilmente, saranno restii a collocare tanto sull'azionario a causa delle crescenti turbolenze quanto sull'obbligazionario a causa dei rendimenti fortemente compressi (quindi dei prezzi particolarmente gonfiati) dalle politiche delle banche centrali.
Coloro i quali non intenderanno assumere alcun rischio di mercato,
continueranno quindi a mantenersi liquidi.
In altri termini: le ripetute politiche espansive delle banche centrali, hanno spinto i prezzi delle obbligazioni e delle azioni alle stelle;
ad un certo punto, le borse hanno stornato e chi ha potuto se ne è tirato fuori, ritirando la propria liquidità che -eccezion fatta nel caso in cui si decidesse di accettare un maggior rischio di perdite in conto capitale- non sarà allocata sull'obbligazionario: perché? Perché le probabilità che i prezzi delle obbligazioni si riducano, crescono; simmetricamente, le probabilità che aumentino diminuisce, il che vuol dire che il rischio di perdite in conto capitale aumenta.

All'aumentare del rischio di perdite future in conto capitale, cresce il novero di coloro i quali preferiscono avere liquidità non investita, il cui costo opportunità è reso nullo dai tassi di interesse correnti.

L'alternativa, come detto, sono i prodotti equity ed equity like, i cui profili rischi/rendimento peggiorano all'aumentare delle turbolenze, divenendo meno appetiti a parità di rischio.

In tutto questo, si inserisce il fallimento -ad oggi- dei vari QE mondiali nel raggiungimento di uno degli obiettivi core, vale a dire la creazione un inflazione prossima al 2%; i persistenti rischi di inflazione nulla o peggio ancora di deflazione, contribuiscono a spingere verso il basso la fiducia e minore fiducia vuol dire maggiori turbolenze, specie sull'azionario, a fronte di negative previsioni di crescita della domanda aggregata .
A questo punto, per sostenere la domanda aggregata, le Banche centrali iniettano ulteriore liquidità, che a fronte del rallentamento di investimenti e consumi si rivela utile come una stufa in piena estate.
Il rallentamento dell'economia incrementa ulteriormente i profili di rischio sul versante finanziario, circostanza questa inducente i risparmiatori a preferire liquidità o attività finanziarie monetarie a breve termine, mentre istituzionali e banche riducono i rischi presenti nei rispettivi portafogli nonché l'offerta di credito, accorciando i relativi orizzonti temporali.

Ora, partiamo da un assunto indiscutibile: il tasso di rendimento atteso di ogni titolo, parte di un portafoglio, dovrebbe essere tanto più elevato quanto maggiore è il contributo del titolo al rischio del portafoglio medesimo. In questi mesi - per quanto riguarda gli USA si dovrebbe parlare di anni- da parte di moltissimi gestori abbiamo sentito la seguente frase: «il nostro portafoglio è composto prevalentemente da azioni che rendono più delle obbligazioni e sono addirittura meno rischiose». Sotto la spinta dei QE, effettivamente, questa asset class ha presentato profili di rischio/rendimento interessanti, il che significa che l'azionario ha apportato ai portafogli rendimenti elevati con un contributo di rischio stimato molto basso. Tuttavia, qualora i ribassi dovessero proseguire, i gestori si ritroverebbero -improvvisamente- in mano, una grossa fetta dell' asset class più rischiosa, vantante prospettive di rendimento ridimensionate, ragion per cui dovranno procedere a massicci aggiustamenti delle posizioni in essere in linea con l'eventuale mercato orso che, nel ricollocamento della liquidità, contribuiranno ad alimentare.

Pubblicato da FRANCESCO MARIA PELLEGRINI a 23:00
 

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Craig Roberts: macché Cina, il disastro è tutto americano

Scritto il 17/9/15 • nella Categoria: idee • (0)
Nel Matrix dove vivono gli americani, niente è mai colpa loro. Ad esempio, l’attuale svalutazione di borsa Usa non è dovuta ad anni di eccessive iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve che hanno generato una bolla così gonfiata che il valore di appena sei stock, alcuni dei quali valutati a prezzi completamente sproporzionati rispetto ai loro utili reali, contava per più di tutti i guadagni in capitalizzazione di mercato quotati nel S&P500 prima dell’ondata di svalutazione attuale. Nella nostra esistenza-Matrix la svalutazione delle borse non è dovuta alle multinazionali che reinvestono profitti, o persino ricomprano a debito, i loro stessi titoli, allo scopo di creare una domanda artificiale per le loro quote azionarie (equity share). Il declino non si deve all’ultimo rapporto mensile sugli ordini di beni durevoli su base annua che sono in caduta almeno da 6 mesi consecutivi.
La svalutazione borsistica non è dovuta a una economia debole in cui una decade di presunta ripresa economica il mercato immobiliare, sia per il patrimonio esistente che per nuove costruzioni, è in diminuzione rispettivamente del 63% e del 23%, riferito ai livelli del picco di luglio 2005. La svalutazione di borsa non è dovuta al collasso della mediana dei salari reali per famiglia, e di conseguenza, al crollo della domanda interna, risultato di due decenni di rilocalizzazione offshore degli impieghi della classe media e al loro parziale rimpiazzo con impieghi “Walmart” del tipo part-time a salario minimo e senza benefit e ammortizzatori sociali i quali non danno reddito sufficiente a formare nuove famiglie. No, figuriamoci, nessuno di questi fatti è responsabile. Il colpevole del crollo delle borse Usa è la Cina.
Che ha fatto la Cina? E’accusata di avere leggermente svalutato la sua moneta. E perchè mai un lieve aggiustamento nel valore di scambio dello yuan col dollaro dovrebbe causare il declino delle borse Usa ed europee? Infatti non è possibile. Ma cosa gliene importa ai media prostituiti, loro mentono per vivere. Inoltre, non è stata nemmeno una svalutazione. Quando la Cina avviò la transizione dal comunismo al capitalismo, decise di agganciare il cambio della sua valuta al dollaro americano allo scopo di dimostrare che la sua valuta era buona quanto la valuta di riserva mondiale. Nel tempo ha consentito che la sua valuta si apprezzasse rispetto al dollaro. Ad esempio, nel 2006 1 dollaro valeva 8,1 yuan cinesi. Di recente, prima della presunta svalutazione, un dollaro oscillava tra 6,1 e 6,2 yuan. Dopo l’aggiustamento del suo tasso di cambio variabile adesso uno yuan sia cambia per 6,4 dollari. Mi pare chiaro che un cambiamento del valore dello yuan da 6,1/6,2 a 6,4 per dollaro non è abbastanza a determinare un crollo nei mercati borsistici Usa ed europei.
Inoltre il cambiamento del tasso in rapporto al dollaro non rappresenta un cambiamento del tasso in rapporto alle valute degli altri partner commerciali non-Usa. Ciò che è accaduto, è che la Cina ha corretto, è che come risultato delle politiche di emissione monetaria tipo quantitative easing attualmente praticate dalle banche centrali europea e giapponese il dollaro si è apprezzato rispetto ad altre valute. Dal momento che lo yuan cinese è agganciato al dollaro, la valuta cinese si è di conseguenza apprezzata rispetto a quelle dei suoi partner commerciali europei ed asiatici. L’apprezzamento della valuta cinese (dovuta all’aggancio col dollaro) non è una buona cosa per l’export cinese, specie in un periodo di difficoltà economiche diffuse. La Cina ha appena alterato il suo aggancio al dollaro per rimuovere gli effetti negativi dell’apprezzamento della sua valuta in riferimento a quelle di molti partner commerciali.
Come mai la stampa finanziaria non spiega tutto ciò? La stampa finanziaria occidentale sarebbe così incompetente da non sapere questo? Sì. O piuttosto è che l’America non può mai e poi mai essere responsabile se qualcosa va storto. Chi noi? Noi siamo innocenti, sono sempre quei maledetti cinesi! Pensiamo ad esempio alle orde di rifugiati dalle invasioni americane, dai bombardamenti su sette paesi esteri diversi, che stanno invadendo l’Europa. Il massiccio spostamento di gente mosso dalle stragi di popolazioni perpetrate dall’America in sette paesi, consentite dagli stessi europei, sta causando sgomento in Europa e un revival dei partiti d’estrema destra. Oggi, per esempio, i neonazi hanno zittito la cancelliere tedesca Merkel, che cercava di fare un discorso di compassione verso i rifugiati. Ovviamente la stessa Merkel è tra i responsabili del problema rifugiati che sta destabilizzando l’Europa. Senza la Germania come Stato fantoccio degli Stati Uniti, una non-entità senza sovranità reale, un non-paese, solo un vassallo, un avamposto dell’Impero, agli ordini diretti di Washington, senza simili appoggi l’America non potrebbe condurre le guerre illegali che stanno producendo le orde di rifugiati che stanno portando al limite la capacità dell’Europa di accettare rifugiati e favorendo partiti “neo-nazi”.
La stampa corrotta Usa o europea presenta il problema dei rifugiati come totalmente avulso dai crimini di guerra americani contro sette paesi. Seriamente, ma perchè mai la gente dovrebbe scappare da paesi dove l’America gli sta portando “libertà e democrazia”? Da nessuna parte nei media occidentali, eccetto qualche sito di informazione alternativa resta un grammo di integrità. I media occidentali sono un “Ministero della verità” (Orwell) che opera a tempo pieno in supporto dell’esistenza artificiale che gli occidentali vivono dentro il Matrix dove gli occidentali sussistono privi di pensiero. Considerando la loro inettitudine ed inazione, sarebbe lo stesso se la gente occidentale non esistesse affatto. Ben più che solo qualche indice di borsa colllasserà sui polli occidentali e sui loro cervelli lavati.
(Paul Craig Roberts, “Wall Street e Matrix, dov’è Neo quando abbiamo bisogno di lui?”, dal sito di Craig Roberts del 26 agosto 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”).
Nel Matrix dove vivono gli americani, niente è mai colpa loro. Ad esempio, l’attuale svalutazione di borsa Usa non è dovuta ad anni di eccessive iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve che hanno generato una bolla così gonfiata che il valore di appena sei stock, alcuni dei quali valutati a prezzi completamente sproporzionati rispetto ai loro utili reali, contava per più di tutti i guadagni in capitalizzazione di mercato quotati nel S&P500 prima dell’ondata di svalutazione attuale. Nella nostra esistenza-Matrix la svalutazione delle borse non è dovuta alle multinazionali che reinvestono profitti, o persino ricomprano a debito, i loro stessi titoli, allo scopo di creare una domanda artificiale per le loro quote azionarie (equity share). Il declino non si deve all’ultimo rapporto mensile sugli ordini di beni durevoli su base annua che sono in caduta almeno da 6 mesi consecutivi.
 

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Tony Cioli Puviani 19 settembre alle ore 14:21 L’INCERTEZZA SUI MERCATI

Un errore che viene sovente commesso dai commentatori delle vicende economiche è giudicare l’azione di un Governo o di una Banca Centrale in base alle reazioni delle borse. Una reazione negativa dei mercati si traduce quindi in una bocciatura della decisione presa dall’Autorità di turno; viceversa una reazione positiva lascia pensare che la decisione presa sia una ottima scelta.
A mio avviso, noi spettatori delle grandi decisioni delle Autorità di Governo o delle Banche Centrali possiamo solo parzialmente giudicarle, perché almeno in parte ignoranti, in quanto non possediamo una perfetta conoscenza di quello che è o che sarà.

Gli operatori agiscono sui mercati finanziari non per giudicare i fatti, ma solo perché sperano di poter migliorare un po’ le proprie condizioni di vita per ogni loro singola transazione che compiono. Sul mercato quindi si confrontano solo le aspettative tra operatori economici, ognuno dei quali spera di anticipare le reazioni degli altri operatori al divenire dei fatti che accadranno.
Le politiche di quantitative easing sono politiche sperimentali, che di sicuro hanno aumentato i valori degli asset finanziari; solo la storia, però, potrà giudicare la validità e l’efficacia di tali azioni anche sull’economia reale (attualmente i dubbi sono molti).

In risposta ad una linea più accomodante della FED le borse ieri hanno reagito male, invertendo quella che sarebbe la “regola” in base alla quale con i tassi bassi le borse dovrebbero salire.
Ma perché si è scesi?
Per i mercati finanziari non c’è niente di peggio che l’incertezza su quel che sarà la politica monetaria dei prossimi mesi; continuare a fare congetture su quel che sarà alla fine stanca, e chi opera sui mercati (a cui, come prima ho scritto, interessa solo anticipare altri operatori) è frenato dalla mancanza di una bussola su cui basare i propri ragionamenti Quindi diventa naturale astenersi dall’ investire proprio perché si è consci che difficilmente si potranno anticipare altri operatori, che al loro volta saranno spaesati.
Inoltre può darsi - ma è ancora presto per dirlo- che si stia creando una certo grado di assuefazione al “quantum” della moneta immessa e che si ricominci a guardare all’economia globale. La Fed ha fatto capire che dei rischi ci sono, senza entrare nel dettaglio, ma il segnale è chiaro.

In assenza quindi di indicazioni che diano un minimo di certezza su quelli che saranno gli atteggiamenti futuri della Fed, è certo che aumenterà la paura ovvero la volatilità. Incertezza alimentata anche da alcune situazioni dubbie in Cina e in alcuni Paesi emergenti (oltre alla elezioni greche di domani, il 27 settembre ci sarà anche il referendum sull’indipendenza della Catalogna).

Infine, quanto ancora le politiche accomodanti delle Banche Centrali possano spingere i mercati è difficile dirlo, anche se è evidente negli ultimi tempi la loro minore incisività.
 

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