Macroeconomia l'indicatore LLF parla chiaro: CROLLO (1 Viewer)

Franzo

PELO e CONTROPELO
Caron ... :)




La ripresa dell’economia Usa non sembra volersi arrestare e, anzi, sta contagiando positivamente l’intero pianeta. O forse no. Tra i mille indicatori che si possono prendere in esame per tastare il polso del ciclo economico in atto ve ne sono alcuni poco ortodossi ma decisamente utili. Uno di questi riguarda i dati di vendita a livello mondiale di Caterpillar, gigante dei macchinari pesanti da lavoro che si pone come cartina di tornasole dell’attività di molti comparti chiave, industriali e non, come ad esempio l’edilizia. Nel mese di aprile, Cat aveva registrato un confortante +5% annualizzato, dato che aveva ringalluzzito i teorici della ripresa a stelle e strisce ma quello reso noto venerdì riguardo il mese di maggio, rischia di rivelarsi la proverbiale doccia gelata. A fronte di un -1% per le vendite in Nord America, a fare paura sono stati i dati di Cina e America Latina, rispettivamente a -17% e -50%! Non è che la dinamica in atto è differente? Ovvero, non è l’America a trascinare il mondo verso la ripresa ma il resto del globo a portare con sé verso una nuova recessione un’America già di suo poco in salute dal punto di vista macro. D’altronde, questo grafico parla chiaro.

La precedente recessione è infatti durata 19 mesi dopo lo scoppio della crisi finanziaria, mentre oggi sono 30 i mesi consecutivi in cui le vendite di Caterpillar a livello globale patiscono cali a un tasso medio mensile del 10%! Insomma, non è che siamo già nel pieno di una seconda grande depressione, Usa in testa? E non basta, perché un altro dato – decisamente correlato a quello di Cat e tra i più decisivi per la creazione della narrativa del boom Usa – ci parla di guai in vista: il settore dello shale, il quale sta letteralmente annegando nel debito che ha finanziato il suo boom negli anni scorsi.
Sempre più società di trivellazione ed estrazione stanno infatti utilizzando una percentuale altissima di introiti per i pagamenti degli interessi: la Continental Resources, la società che ha concorso nel rendere il bacino di Bakken in Nord Dakota una delle regioni più produttive al mondo, spende per quella voce più o meno la stessa cifra di Exxon Mobile, un’azienda venti volte più grande per dimensioni. E il carico è divenuto sempre più insostenibile dopo il crollo del prezzo del petrolio, sceso del 43% lo scorso anno: i pagamenti per gli interessi stanno mangiandosi oltre il 10% degli introiti per 27 delle 62 società di trivellazione inserite nel Bloomberg Intelligence North America Independent Exploration and Production Index, più che raddoppiate visto che solo lo scorso anno erano 12. Il debito del comparto è esploso a 235 miliardi di dollari alla fine del primo trimestre di quest’anno, un incremento del 16% dallo scorso anno e con entrate in contrazione.
Il problema, poi, è che hanno speso molti soldi più velocemente rispetto a quanti ne abbiano fatto, anche quando il petrolio era a 100 dollari al barile: le compagnie inserite nell’indice di Bloomberg hanno speso 4,15 dollari per ogni dollaro guadagnato vendendo petrolio o gas nel primo trimestre rispetto ai 2,25 dollari del 2014, questo portando la produzione petrolifera Usa al massimo da 30 anni. Insomma, c’è un serio problema di liquidità nel settore, tanto che Standard&Poor’s ha assegnato un rating speculativo o junk a 45 delle 62 aziende sull’indice di Bloomberg. Oltre 20 miliardi di dollari in bond emessi da queste 62 compagnie stanno tradando a livelli di forte pressione, con rendimenti superiori del 10% rispetto al Treasury, questo come conseguenza del maggiore premio di rischio che gli investitori stanno chiedendo. Stando al report di maggio sempre di Standard&Poor’s, l’agenzia di rating ha abbassato l’outlook od operato il downgrade su quasi la metà delle 105 aziende di produzione ed esplorazione Usa che valuta. Ultimo dato, le aziende petrolifere e del gas pesano per un terzo dei 36 default corporate occorsi nel mondo quest’anno, con il mancato pagamento degli interessi come prima causa del fallimento. E il problema non è tanto e solo per le aziende petrolifere a livello di produzione e gestione dell’operatività a questi prezzi, quanto per la finanziarizzazione del petrolio come commodities a preoccupare gli Stati Uniti.
Se infatti i prezzi restassero a questo livello per il resto dell’anno, vedremmo molto aziende fallire, miliardi di dollari di loro debito emesso andare incontro al default e qualche trilione di dollari di derivati legati al comparto implodere. Stando a dati in possesso di Marty Fridson della LLF Advisors, dei 180 distressed bonds nell’indice ad alto rendimento di Bank of America-Merrill Lynch ben 52, o il 29%, sono stati emessi da compagnie energetiche, un settore che pesa per il 4,6% di tutti i prestiti a leva attualmente in circolazione, una percentuale che meno di dieci anni fa era del 3,1%. Di più, le obbligazioni energetiche pesano per il 15,7% del mercato da 1,3 trilioni di dollari dei junk bonds, stando a dati proprio di Barclays, contro il 4,3% di dieci anni fa. Inoltre, uno studio di Deutsche Bank pubblicato a metà febbraio dimostrava come, a fronte delle previsioni di price/earning dei titoli energetici quotati allo Standard&Poor’s ormai oltre quota di multiplo 26x (più della bolla tecnologica), per riportare quella follia a un livello normalizzato attorno al 15x bisognerebbe che il petrolio tornasse a 80 dollari al barile e restasse in quell’area o anche più alto per l’intera seconda metà di quest’anno. Bene, tenendo conto del fatto che il settore energetico supporta negli Usa almeno 1,3 milioni di posti di lavoro solo nella manifattura (senza contare ingegneria, comparto legale e accountability), che è stato l’unico driver occupazionale durante la recessione post-Lehman (ha creato 9,3 milioni di posti di lavoro, il 93% dei 10 milioni totali), che rappresenta il gruppo singolo più grande dell’alto rendimento, il secondo dell’IG e il terzo dello Standard&Poor’s, come è possibile la dinamica in atto e mostrataci da questo grafico?

E questo ignorando tutte le altre criticità, come la leva indiscriminata, i buybacks da parte delle grandi aziende finanziati con emissioni di debito record e l’espansione dei multipli da mani nei capelli a livello generale. Per quanto ancora le equities Usa potranno ignorare cosa accade in America e nel mondo e viaggiare serene in un mondo di mark-to-QE e volatilità quasi zero?
 

Caront€

Succube a prescindere!
Caron ... :)




La ripresa dell’economia Usa non sembra volersi arrestare e, anzi, sta contagiando positivamente l’intero pianeta. O forse no. Tra i mille indicatori che si possono prendere in esame per tastare il polso del ciclo economico in atto ve ne sono alcuni poco ortodossi ma decisamente utili. Uno di questi riguarda i dati di vendita a livello mondiale di Caterpillar, gigante dei macchinari pesanti da lavoro che si pone come cartina di tornasole dell’attività di molti comparti chiave, industriali e non, come ad esempio l’edilizia. Nel mese di aprile, Cat aveva registrato un confortante +5% annualizzato, dato che aveva ringalluzzito i teorici della ripresa a stelle e strisce ma quello reso noto venerdì riguardo il mese di maggio, rischia di rivelarsi la proverbiale doccia gelata. A fronte di un -1% per le vendite in Nord America, a fare paura sono stati i dati di Cina e America Latina, rispettivamente a -17% e -50%! Non è che la dinamica in atto è differente? Ovvero, non è l’America a trascinare il mondo verso la ripresa ma il resto del globo a portare con sé verso una nuova recessione un’America già di suo poco in salute dal punto di vista macro. D’altronde, questo grafico parla chiaro.

La precedente recessione è infatti durata 19 mesi dopo lo scoppio della crisi finanziaria, mentre oggi sono 30 i mesi consecutivi in cui le vendite di Caterpillar a livello globale patiscono cali a un tasso medio mensile del 10%! Insomma, non è che siamo già nel pieno di una seconda grande depressione, Usa in testa? E non basta, perché un altro dato – decisamente correlato a quello di Cat e tra i più decisivi per la creazione della narrativa del boom Usa – ci parla di guai in vista: il settore dello shale, il quale sta letteralmente annegando nel debito che ha finanziato il suo boom negli anni scorsi.
Sempre più società di trivellazione ed estrazione stanno infatti utilizzando una percentuale altissima di introiti per i pagamenti degli interessi: la Continental Resources, la società che ha concorso nel rendere il bacino di Bakken in Nord Dakota una delle regioni più produttive al mondo, spende per quella voce più o meno la stessa cifra di Exxon Mobile, un’azienda venti volte più grande per dimensioni. E il carico è divenuto sempre più insostenibile dopo il crollo del prezzo del petrolio, sceso del 43% lo scorso anno: i pagamenti per gli interessi stanno mangiandosi oltre il 10% degli introiti per 27 delle 62 società di trivellazione inserite nel Bloomberg Intelligence North America Independent Exploration and Production Index, più che raddoppiate visto che solo lo scorso anno erano 12. Il debito del comparto è esploso a 235 miliardi di dollari alla fine del primo trimestre di quest’anno, un incremento del 16% dallo scorso anno e con entrate in contrazione.
Il problema, poi, è che hanno speso molti soldi più velocemente rispetto a quanti ne abbiano fatto, anche quando il petrolio era a 100 dollari al barile: le compagnie inserite nell’indice di Bloomberg hanno speso 4,15 dollari per ogni dollaro guadagnato vendendo petrolio o gas nel primo trimestre rispetto ai 2,25 dollari del 2014, questo portando la produzione petrolifera Usa al massimo da 30 anni. Insomma, c’è un serio problema di liquidità nel settore, tanto che Standard&Poor’s ha assegnato un rating speculativo o junk a 45 delle 62 aziende sull’indice di Bloomberg. Oltre 20 miliardi di dollari in bond emessi da queste 62 compagnie stanno tradando a livelli di forte pressione, con rendimenti superiori del 10% rispetto al Treasury, questo come conseguenza del maggiore premio di rischio che gli investitori stanno chiedendo. Stando al report di maggio sempre di Standard&Poor’s, l’agenzia di rating ha abbassato l’outlook od operato il downgrade su quasi la metà delle 105 aziende di produzione ed esplorazione Usa che valuta. Ultimo dato, le aziende petrolifere e del gas pesano per un terzo dei 36 default corporate occorsi nel mondo quest’anno, con il mancato pagamento degli interessi come prima causa del fallimento. E il problema non è tanto e solo per le aziende petrolifere a livello di produzione e gestione dell’operatività a questi prezzi, quanto per la finanziarizzazione del petrolio come commodities a preoccupare gli Stati Uniti.
Se infatti i prezzi restassero a questo livello per il resto dell’anno, vedremmo molto aziende fallire, miliardi di dollari di loro debito emesso andare incontro al default e qualche trilione di dollari di derivati legati al comparto implodere. Stando a dati in possesso di Marty Fridson della LLF Advisors, dei 180 distressed bonds nell’indice ad alto rendimento di Bank of America-Merrill Lynch ben 52, o il 29%, sono stati emessi da compagnie energetiche, un settore che pesa per il 4,6% di tutti i prestiti a leva attualmente in circolazione, una percentuale che meno di dieci anni fa era del 3,1%. Di più, le obbligazioni energetiche pesano per il 15,7% del mercato da 1,3 trilioni di dollari dei junk bonds, stando a dati proprio di Barclays, contro il 4,3% di dieci anni fa. Inoltre, uno studio di Deutsche Bank pubblicato a metà febbraio dimostrava come, a fronte delle previsioni di price/earning dei titoli energetici quotati allo Standard&Poor’s ormai oltre quota di multiplo 26x (più della bolla tecnologica), per riportare quella follia a un livello normalizzato attorno al 15x bisognerebbe che il petrolio tornasse a 80 dollari al barile e restasse in quell’area o anche più alto per l’intera seconda metà di quest’anno. Bene, tenendo conto del fatto che il settore energetico supporta negli Usa almeno 1,3 milioni di posti di lavoro solo nella manifattura (senza contare ingegneria, comparto legale e accountability), che è stato l’unico driver occupazionale durante la recessione post-Lehman (ha creato 9,3 milioni di posti di lavoro, il 93% dei 10 milioni totali), che rappresenta il gruppo singolo più grande dell’alto rendimento, il secondo dell’IG e il terzo dello Standard&Poor’s, come è possibile la dinamica in atto e mostrataci da questo grafico?

E questo ignorando tutte le altre criticità, come la leva indiscriminata, i buybacks da parte delle grandi aziende finanziati con emissioni di debito record e l’espansione dei multipli da mani nei capelli a livello generale. Per quanto ancora le equities Usa potranno ignorare cosa accade in America e nel mondo e viaggiare serene in un mondo di mark-to-QE e volatilità quasi zero?

:up::D
indicatore INFALLIBILE:
ripeto CROLLO :-o
 

Franzo

PELO e CONTROPELO
dai Caronte, ... petta un attimo, ... duo o tre giorni, ... se no mi rimani deluso, non avere fretta.
 

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