Cerro Torre (1 Viewer)

Fleursdumal

फूल की बुराई
Tutto inizia nel 1959: Cesare Maestri, Toni Egger e Cesarino Fava partono per il Cerro Torre. Le relazioni del tempo narrano che il trio raggiunse il Colle della Conquista. Qui le loro strade si dividono: Fava rinuncia, si fa calare per 200 metri e torna indietro. Maestri ed Egger in due giorni e mezzo superano i 700 metri che li separavano dalla vetta sulla parete nord. Poi il rientro, con la tragica fine di Egger, travolto da una valanga, sotto la quale rimase anche il materiale fotografico che testimoniava un'impresa assoluta per l'alpinismo mondiale.
Nessuno, comunque, mise in discussione il racconto di Maestri e Fava. Negli anni successivi, però, inizia la polemica. A Maestri furono mosse alcune contestazioni: in primis dopo il Colle della Conquista non sono mai state trovate tracce dei due alpinisti, sia in salita che in discesa; inoltre, il tempo impiegato per raggiungere la vetta (2 giorni e mezzo) fu considerato non realistico. Maestri, a sua difesa, spiega che ascesa e rientro si svolsero principalmente su ghiaccio e questo permise da un lato, una rapida salita, dall'altro fece si che non rimasero tracce di chiodi sulla parete. Dal 1959 ad oggi nessuno è più riuscito a percorrere la via Maestri - Egger. Ci riusciranno Salvaterra, Beltrami e Garibotti?
Intanto la polemica continua...

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फूल की बुराई
Cesare Maestri racconta la tragedia sul Cerro Torre
Un urlo, ma Egger fu strappato via
Durante la discesa la temperatura in aumento trasformò le pareti incrostate di ghiaccio in una trappola micidiale
Pubblichiamo, benché giunto con molto ritardo, dato il suo eccezionale interesse, il resoconto della drammatica scalata del Cerro Torre, in Patagonia, che Cesare Maestri ci ha inviato dal campo base: come è noto, in questa difficilissima impresa ha trovato la morte il compagno di cordata di Maestri, Toni Egger, austriaco, ritenuto uno dei più grandi alpinisti del mondo. La seguente relazione, di fonte autentica, rettifica varie circostanze della sciagura, quali erano state pubblicate da vari giornali.


Dal campo base, febbraio

Alle ore quindici del trentuno gennaio un improvviso e caldo vento dall'ovest fa scattare ad una ad una le trappole che salendo abbiamo lasciato aperte lungo la paurosa e ripida parete nord-ovest dei Cerro Torre.
L'altimetro segna 250 metri oltre la quota conosciuta della cima del Torre. Non c'è tempo da perdere. Assicurati con le piccozze piantate fonde nella neve per non essere strappati dal vento facciamo sventolare cinque piccole bandiere: l'italiana, l'austriaca, l'argentina, quella della città di Trento e la fiamma della Società Alpinisti Tridentini. Poi, velocemente, le solite cose: fotografie, trangugiare in fretta l'ultima scatola di frutta sciroppata, scrivere su di un foglio i nostri nomi e depositarli su questa cinta di ghiaccio e scendere scendere con più velocità possibile.
Non c'è posto in noi per la felicità; un infinito senso di morte ci sovrasta. Sono circa cento ore che viviamo su questa lontana montagna patagonica, cento ore di fatiche che rappresentano per noi, in qualsiasi caso, l'ultimo atto di questa nostra avventura cominciata il 21 dicembre quando in compagnia di Toni Egger, Cesarino Fava, Angelo Vincitorio studente in medicina, Juan Pedro Spikermann studente in geologia, Augusto Dalbagni studente in chimica e Gianni Dalbagni studente in ingegneria, abbiamo lasciato Buenos Aires a bordo di un camion che ci portò in una settimana all'estancia «La Primera», posto di partenza per l'avvicinantento al Cerro Torre.
E' lunga la strada da Buenos Aires alla base del Torre, e noi abbiamo attraversato questa immensa e piatta Patagonia, un po' in camion, un po' a cavallo e un po' a piedi. Ma quello che conta è che tutti hanno lavorato bene. Abbiamo fatto un lavoro da formiche portando i mille chili di carico dalla estancia «Fitz Roy» fin qui, ai piedi del Torre.




Settimana di maltempo

In 10 giorni di continuo e massacrante lavoro riusciamo ad installare 3 campi. Il primo alla Laguna Torre a 750 metri di altitudine, il secondo ai piedi del «Mocho» a quota 950 ed il terzo a 1.650 metri, un buco di ghiaccio esattamente a 200 metri dalla formidabile parete che ci sovrasta.
Il giorno 9 cominciamo il duro lavoro di salire e scendere per la parete est attrezzando, con corde fisse, i metri che faticosamente conquistiamo.
Ma il maltempo ci blocca due settimane continue. Vento e neve, sempre, di giorno e di notte, finché lentamente si riaffaccia il bello. Arriva così il 28 gennaio quando in silenzio Fava, Egger ed io ci leghiamo alla base della parete est.
Fava è carico come un mulo. Risaliamo velocemente, usufruendo delle corde fisse, tutto il primo diedro e poi il secondo, arrivando dopo undici ore alla piccola forcella a nord del Torre. Da qui possiamo vedere tutta la parete nord nord-ovest.
Due sarebbero le soluzioni: attraversarla tutta per entrare in un gran camino che sembra porti alla base del grande strapiombo di ghiaccio orientato a sud-ovest per poi riattraversare in alto verso nord-ovest. Ma in alto ci sono grandi funghi di neve e molte cornici da superare.
La seconda sta sopra alle nostre teste. Sulle ripide placche a destra dello spigolo nord che scende qui alla forcella si è accumulata molta neve portata dal vento e gelata dal freddo, formando una ripidissima parete di ghiaccio.
Toni ne prova la resistenza. Il ghiaccio sembra tenere, però il suo spessore non supera mai i cinquanta centimetri.
Il tempo tende al bello e fa freddo. Ci guardiamo tutti e tre. Questa volta, o mai. Ma sappiamo che se la temperatura risale, questa parete diventerà una trappola.
Nessuno di noi parla, in silenzio accettiamo tutto quello che dovrà avvenire. Fava scende, solo. Sparisce veloce lungo la corda doppia. Restiamo soli Toni ed io. Abbiamo con noi duecento metri di «perlon», 50 chiodi da ghiaccio, 50 chiodi normali e 50 ad espansione.
L'ascesa nel vento

Prepariamo il bivacco mentre il tempo migliora ogni momento. Una sera fredda e calma ci lascia riposare, ma la notte è subito passata. Bisogna partire. Il freddo è intenso; decidiamo che Toni, più veloce e leggero di me, salga per primo. Io cercherò di ricuperare tempo salendo da secondo il più veloce possibile. La neve «porta» bene e Toni è un artista sul ghiaccio, fa quello che vuole; dal canto mio cerco di risparmiare tempo.
Tutto il giorno dura questo rincorrersi per questa ripida e pericolosa parete divenuta di ghiaccio, finché la pendenza diminuisce ed arriviamo su ghiaccio vero dove i chiodi possono entrare profondamente e non per pochi centimetri. Ora non sentiamo più il rumore sordo dei nostri passi che rimbombava paurosamente.
Alla sera del 29 abbiamo fatto 350 metri ma sopra di noi rimane molto da fare. Il tempo si mantiene bello. Scaviamo
la nostra tana, mangiamo e beviamo tè caldo.
La mattina del 30 riprendiamo a salire obliquando verso destra. Andiamo a comando alternato e buchiamo due grandi coni di ghiaccio che richiedono molto tempo.
Canali formati dal vento ci aiutano a salire e ricuperare un po' di tempo perduto; arriviamo alla sera del 30 sul pianoro, a circa 150 metri dalla cima. Ancora una tana per la notte, ancora la preoccupazione di quello che sarà la discesa.
Ed arriva la mattina del 31. Il primo salto di circa 70 metri è ripidissimo, quasi verticale, ma saliamo senza fermarci. Per un canalino facile ma pericoloso ci alziamo un bel po' fino ad un altro piccolo pianoro.
Fa molto caldo e dall'ovest comincia a soffiare un fortissimo vento caldo; acceleriamo l'andatura. Toni al termine della sua filata di corda mi urla: «la cima». Salgo di corsa con un sapore di fatica nella gola. A circa 50 metri sta la cima. Saliamo assieme mentre il vento continua a soffiare con violenza.
Ci sembra impossibile. Io non sono felice, è una cima come le altre. Quanta fatica, quanto rischio, quanti fattori estranei all'alpinismo m'hanno dato la forza di salire! No, non sono felice.
Mangiamo qualche cosa, fotografiamo le bandierine che non possianto attaccare alle piccozze perchè ci servono ad ancorarci alla cima tanto è forte il vento. E poi scendere il più velocemente possibile, lasciando sulla cinta qualche impronta e il vento che gioca con una latta vuota.
Ci fermiamo al bivacco del 30. II vento continua, sembra che sopra di noi corra continuamente un treno. Dalla cima cominciano a discendere grosse slavine. La notte passa, male, sappiamo che cosa ci aspetta più sotto.
Scendiamo per tutto il giorno 1, il vento caldo rende tutta la neve come poltiglia che si stacca e precipita rumorosa. In dieci ore riusciamo a scendere solo 400 metri. La sera ci sorprende poco sopra la forcella. Scendere è qualche cosa di tragico: il calore, sciolta la neve che ci aveva permesso di salire, lascia pulita la roccia. Nessuna possibilità di piantare chiodi normali. Ogni corda doppia dobbiamo piantare due chiodi a espansione sotto il continuo bombardamento di grosse slavine. Ma anche la sera dell'uno ci vede vivi.
Il tempo ormai è «caduto», non c'è più nulla da fare. La notte passa fra il rumore del vento e delle valanghe. Il 2 febbraio continuiamo a scendere lungo le placche che sono coperte di un leggero strato di neve spazzato continuamente dal vento e dalle valanghe.

La tremenda valanga

Per scendere adottiamo il sistema che si usa nei salvataggi: uno si lega attorno alla corda doppia e l'altro lo cala di peso a carrucola su due moschettoni frenanti. Dobbiamo fare così altrimenti le corde verrebbero portate via dalla forza del vento. Arriviamo così verso le 19 del 2 febbraio a circa 150 metri dalle corde fisse.
Decidiamo di passare la notte sulla cima di un piccolo nevaio pensile. Pianto tre chiodi e cominciamo a fare il buco per passare la notte. Ma a Toni questo posto non sembra tanto sicuro, vuole vedere a destra più in basso se c'è una sistemazione migliore fuori dal tiro delle valanghe.
Mentre lo calo ed egli è arrivato a una quindicina di metri da me, un rumore assordante mi fa alzare il capo: una enorme massa di neve e ghiaccio si tacca dalla cima.
Urlo: «Attento, Toni» e mi appiattisco contro la parete.
Un colpo sordo e la corda si tende, Toni è investito e coperto dalla valanga. Un pezzo di ghiaccio mi colpisce duramente alla testa.
La tensione della corda diventa insopportabile, poi si rilascia. La valanga continua a cadere con sempre minore forza finché solo pochi pezzi di ghiaccio passano fischiando. Il piccolo nevaio è stato letteralmente spazzato.
Chiamo Toni. Nessuno risponde. Non rimane nessuna speranza. La valanga ha portato con sè tutto l'occorrente per bivaccare. Mi rannicchio nel mio buco di neve e aspetto che passi questa notte tremenda. Sapevo fin dall'inizio che sarebbe dovuta finire così e che domani sarebbe stata la volta mia.
All'alba del 3 febbraio esco dal mio buco come un condannato a morte. Comincio a scendere a corda doppia con lo spezzone che mi rimane, dalla cima continuano a cadere valanghe.
Dopo varie ore, arrivo finalmente alle corde fisse. La parete è un inferno. A pochi metri dal cono di deiezione mi scivolano i piedi e non riesco più a tenermi con le mani; volo così per circa una diecina di metri, la neve caduta durante la notte mi accoglie materna ed attutisce il colpo. Lo spirito di conservazione mi porta attraverso il tormentato ghiacciaio a circa 300 metri dal campo tre dove mi trova Cesarino per caso, molte ore dopo, in uno stato di semi-incoscienza, mentre balbettavo: «Toni è caduto».
Su questa montagna dopo circa duecento ore Toni ha perso la vita, ha pagato a caro prezzo il suo sogno, ma ora dorme tranquillo. Non lo disturberà mai più il freddo o l'urlo del vento. Dorme avvinto nei colori delle bandiere chehanno sventolato sulla cima. Il celeste del cielo, il bianco della neve, il verde dei boschi e il rosso del calore. Lui ora dorme, ha lasciato a noi il doloroso racconto e un vuoto incolmabile nell'alpinismo mondiale e nei nostri cuori.

Cesare Maestri

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फूल की बुराई
I PRIMI TENTATIVI

Già il padre De Agostini, dopo le sue ricognizioni esplorative della zona, aveva additato, sia pure in sottordine al Fitz Roy, dal fascino più immediato e potente, la singolarità e l'ardimento dell'ermo picco, assai meno visibile dalla pianura. L'attenzione del mondo alpinistico per il Cerro Torre era andata poi aumentando, via via che le varie spedizioni, avventuratesi in quelle remote contrade, ne poterono osservare ed ammirare più da vicino la impressionante struttura. Sono note le vicende dei primi due tentativi di conquistare la cima, avvenuti quasi contemporaneamente, nell'inverno scorso, e tutti e due italiani. Parve quasi una corsa a chi arrivasse primo e l'emulazione era così accesa che ne sorsero delle polemiche, perchè anche sulle montagne più inesplorate si ritiene possa crearsi talora una specie di diritto di precedenza.
Un gruppo, di scalatori trentini, era capitanato dal sestogradista Bruno De Tassis e ne faceva parte Cesare Maestri, uno dei due protagonisti dell'ultima impresa. L'altro era imperniato su di una cordata eccezionale, quella formata da Walter Bonatti e Carlo Mauri, giustamente reputati fra i più forti scalatori del mondo. Né gli uni né gli altri riuscirono. Giunti alla base della sgomentante guglia, si resero conto che non poteva essere sconfitta al primo assalto ma che sarebbe occorso un lungo, arduo e pericolosissimo lavoro per «attrezzare» con chiodi e corde fisse la via di salita. Che insomma bisognava innalzarsi a successivi balzi i quali richiedevano molti giorni e soprattutto esigevano una quantità di «materiale» di cui le due spedizioni non disponevano. Tra parentesi, anche l'asso francese Jean Couzy aveva in animo quest'anno di tentare il Cerro Torre; ma la sua morte su una parete del Pic de Lur troncò tragicamente il progetto. Vennero salite altre cime vergini della catena ma si trattò di ascensioni secondarie. Sia Maestri, sia Bonatti, tornarono in Italia con la ferma intenzione di ripetere quanto prima il tentativo.
Anche quest'anno dunque si è riaccesa fra gli italiani la «rivalità» per il Cerro Torre. Ed è qui perfettamente inutile riferire la nuova polemica fra Maestri e Bonatti; risentimenti, malintesi, scatti di nervi avvengono anche sulle altissime montagne, benché comunemente si presuma che lassù debba regnare, fra gli alpinisti, una reciproca fraterna benevolenza. Pur comprendendo che alla vetta non sarebbero arrivati, dalla forcella della cresta fra Cerro Torre e Cima Adele, Bonatti e Mauri, a titolo di prova, attaccarono l'ertissima parete incombente e, superando vari strapiombi, si innalzarono per 120 metri. Dopodiché si calarono in basso, rassegnati a rinunciare. Il bilancio delle due comitive non fu del tutto negativo. Fatto sta che Maestri, per cui il lontano fantasma del Cerro Torre era diventato una sorta di ossessione - chissà che in questa travolgente passione per la rupe patagonica giocasse, nell'inconscio, la vaga somiglianza col «suo» Campanil Basso di Brenta - riuscì a racimolare una somma, non enorme per la verità, che tuttavia poteva servire di base minima per la spedizione

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masgui

Forumer storico
Fantastic racconti. Grazie.

hai letto "Aria sottile" di (Kracauer J.) ?. Ne ho letti diversi ma forse è il più bello.....
 

Fleursdumal

फूल की बुराई
masgui ha scritto:
Fantastic racconti. Grazie.

hai letto "Aria sottile" di (Kracauer J.) ?. Ne ho letti diversi ma forse è il più bello.....

ho preso nota masgui, se non ho letto male è ambientato sull'Himalaya
 

masgui

Forumer storico
Fleursdumal ha scritto:
ho preso nota masgui, se non ho letto male è ambientato sull'Himalaya

Si esatto. E' il racconto quasi in presa diretta della più pesante tragedia avvenuta durante l'attacco alla vetta dell'Everest del 1996 o 1998.. All'impresa partecipò anche lo scrittore giornalista e alpinista che poi ha raccolto tutto nel libro. Veramente bello e appassionante anche per chi non ama l'alpinismo.Ne vale la pena.
 

Fleursdumal

फूल की बुराई
IL BOSCAIOLO SCALATORE

La guida Maestri è famosa per le scalate solitarie. Grazie alla sua potenza atletica, al suo coraggio senza limiti e a ingegnose manovre di sua invenzione con staffe multiple, egli ha ripetuto parecchi «sesti gradi superiori», per cui il binomio della cordata era generalmente ritenuto indispensabile. Maestri però non è un presuntuoso e non pensava certo di poter affrontare il picco terminale del Cerro Torre da solo. Doveva insomma trovare un compagno degno di lui. A Buenos Aires poteva contare su diversi amici, nessuno però di questi gli avrebbe potuto dare un aiuto valido e sicuro su quella terrificante parete. In un primo tempo pensò di farsi affiancare dall'amico Baldessari, col quale l'estate scorsa aveva vinto i repellenti strapiombi dei Grande Daino, in Trentino. Ma Baldessari, ufficiale dell'esercito, non poteva allontanarsi a lungo dall'Italia.
Maestri stava quasi scoraggiandosi quando si offrì, come compagno d'impresa, la guida Toni Egger, di 32 anni nato a Bolzano ma residente ad Innsbruck uno dei più formidabili scalatori, specialista (cosa importantissima) in salite di ghiaccio. Si può dire che Toni Egger, per la sua fenomenale abilità tecnica, l'intuito della montagna e la quasi sovrumana resistenza agli sforzi e ai disagi, avesse preso il posto lasciato tragicamente vuoto dalla morte di Hermann Buhl, perito due anni fa sul Chogolisa (Karakorum). Come Buhl, Egger aveva ripetuto praticamente tutte le più classiche vie di sesto grado sulle Alpi in tempi eccezionali, talora impiegando meno della metà di quanto ci mettessero i normali sestogradisti. (In undici ore, per esempio, aveva fatto consecutivamente la nord della Cima Ovest di Lavaredo e la nord della Cima Grande).
Toni Egger, fra le moltissime ascensioni di estrema difficoltà, aveva poi al suo attivo una vittoria che rappresentava il più rassicurante titolo per una candidatura al Cerro Torre. Egger infatti, nel 1957, aveva conquistato per primo l'Jirishanca, stupendo pinnacolo delle Ande del Perù, superando difficoltà analoghe a quelle che si poteva presumere d'incontrare sul Cerro Torre. Anche sull'Jirishanca cioè, l'ostacolo maggiore consisteva in una serie di strapiombi di ghiaccio sporgenti a baldacchino; e Toni Egger era riuscito a passare perforandoli con la piccozza e il martello, come uno che uscisse da una stanza aprendosi una breccia nel soffitto (cinque bivacchi consecutivi oltre 1 6000 metri).

IPOTESI DELLA SCIAGURA

Naturalmente Maestri accettò con entusiasmo. E i due si riunirono a Buenos Aires poco prima di Natale. (Il povero Egger, per partire, aveva dovuto farsi prestare una somma dagli amici).
La preparazione, la raccolta dei fondi, la scelta del materiale, il piano d'attacco costituirono per la guida trentina un vero «tour-de-force» massacrante. Basti dire che nel giro di pochi giorni egli percorse con l'auto, in Buenos Aires, ben 2600 chilometri passando da un Ministero all'altro, da un ufficio all'altro, da un negozio all'altro. Seguì - a motivo delle agitazioni politiche venne a mancare l'aereo promesso - un massacrante viaggio in camion fino alla lontana «estancia» Las Margaritas, in Patagonia, che doveva servire di base arretrata. Erano con loro alcuni amici abitanti a Buenos Aires, alpinisti anch'essi, benché di classe inferiore: gli studenti milanesi Gianni e Augusto Dalbani, Gian Pietro Spikerman e Romano Angelo Vincitorio.
Da allora, fino a ieri, non si erano avute più notizie. Ed ecco il lieto e funesto cablogramma: la diabolica guglia è stata sconfitta ma Toni Egger non tornerà più alla sua Lienz, non potrà più riabbracciare la mamma.
Che cosa è successo? In mancanza di precise indicazioni non si possono fare che ipotesi. La espressione «scomparso in un crepaccio» del cablogramma non è abbastanza indicativa. Nel linguaggio dei profani questa è la formula generica di ogni disgrazia alpinistica. Tanto più che per arrivare alla base del picco i precedenti esploratori non avevano incontrato ghiacciai specialmente pericolosi.
Sembra possibile, piuttosto, che la sciagura sia avvenuta durante una manovra di calata a corda doppia, quando, normalmente, gli alpinisti non sono legati fra di loro; un chiodo, confitto nel ghiaccio malfermo, potrebbe aver ceduto al peso. O durante il laborioso recupero di una di quelle corde doppie: un falso, brusco movimento in uno dei punti di sosta potrebbe essere riuscito fatale. Da notare al proposito che Toni Egger raccontava come, sull'Jirishanca, il rischio peggiore fosse stato appunto nella discesa: le calate a corda doppia erano non di 30, 40 metri come di solito ma addirittura di cento e oltre, questo perché dall'alto non si poteva valutare dove fermarsi e quindi occorreva avere un largo margine di sicurezza. Il recupero di una corda così lunga era addirittura estenuante, oltre che problematico.
O invece Toni Egger è stai ucciso da una scarica di sassi? Oppure è caduto nell'ultima parte della discesa, «sul facile», quando la stanchezza e lo stesso rilassamento dei nervi dopo il prolungato pericolo tendono a intorpidire l'attenzione? La storia dell'alpinismo è piena di casi del genere, e ne sono rimasti vittime anche grandissimi campioni. Una volta precipitato nell'abisso, non meraviglia poi che l'infelice Egger sia «scomparso» in qualche meandro della parete e magari sia stato inghiottito da un crepaccio del ghiacciaio sottostante.
Innumerevoli sono le ipotesi possibili. Per sapere, non resta che attendere. Ma, comunque le cose siano andate, il bilancio non muta. Una grande vittoria, che avrà un'eco internazionale, e un dolorosissimo lutto per la grande famiglia degli alpinisti e per quanti sanno capire la bellezza di tali imprese. Il Cerro Torre si è vendicato crudelmente.

Dino Buzzati

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फूल की बुराई
1974-2004 Cerro Torre, trent'anni dopo
PRIMA DELLA VETTA di Daniele Chiappa

…Sono preoccupato. Da questa mattina, dopo che il cattivo tempo ha mollato la sua forza attenuando vento, tormenta, nubi, e merde di altro genere, dandoci la possibilità di tentare quella che forse sarà l’ultimo tentativo di arrivare in vetta, adesso ha di nuovo ricominciato a sbuffare.
Sono bastate quattro ore di tranquillità per rimettere in moto questa turbolenta torre ventosa. Mi trovo sotto il passaggio chiave del Torre, in sosta con Pino. Quello che sta sopra di noi si chiama “passaggio chiave” sin da quando siamo arrivati al campo 5 dell’Elmo, perché quando guardavamo in alto, nei brevissimi squarci di sereno, vedevamo buone possibilità di salita fino a quel punto… oltre, era per tutti un enigma, Miro compreso.

Soffia di nuovo il vento, e le violente folate di neve vanno ad infilarsi in tutti i buchi della giacca a vento… in pochissimi secondi si passa dal sereno alla bufera senza capire come questo possa succedere. Un paio d’ore fa, quando con Pino ho raggiunto la cima dell’Elmo, abbiamo visto nitidamente Miro, duecento metri più avanti, mentre era alle prese con le difficoltà della zona centrale del passaggio chiave. Adesso che siamo arrivati sotto questo tiro non si vedono più, né lui né Zenin… al loro posto c’è una bella corda fissa. Recupero Pino in sosta, quindi metto la prima maniglia di risalita nella corda; inserisco la seconda e parto. Pino mi fa sicura sfilandomi la corda pian piano… il tiro è verticale, anzi, a dire il vero, mi pare strapiombi un po’! Ma come ha fatto Miro a passare di lì!

Questa mattina, prima della partenza dal campo 5 all’Elmo, Miro mi aveva detto di portare solo una tendina da bivacco e l’ultimo rotolo di corda… o meglio, l’ultimo rotolo di cordino: quello rosso con la spia gialla della Snia da 6 millimetri di 100 metri. Questa era l’unica nostra corda disponibile, oltre a quella già portata in alto. A Pino ha detto di prendere tutti i chiodi da ghiaccio rimasti; di quelli fatti a casa: “chi lunch” (tubolari lunghi con alette a lisca di pesce) e “chi curt” (corti con lama a spirale larga). Sia io che Pino siamo piuttosto carichi, ma non abbiamo la tensione di aprire la via… tutto sommato, anche se lo zaino è pesante, siamo contenti di muoverci dopo tanti giorni di stop.

Salgo lentamente e con grande fatica; la corda molleggia paurosamente e lo zaino mi sbilancia. Pino mi incita: …“dai, moves, se nò i ciapem piò” (dai, muoviti, sennò non li prendiamo più) – non prendiamo più Miro e Zenin. Pino mi conosce da qualche anno e sa che, se mi tocca sul il nervo scoperto, reagisco: sbuffo un po’ e innesto la marcia giusta! Sono in mezzo al tiro e mi trovo completamente appeso alla corda fissa: sono nel vuoto, lo zaino mi sbilancia, acchiappo al volo l’ultimo gradino della staffa lasciata da Zenin e mi raddrizzo. Tiro il fiato… do un paio di zampate ai gradini della staffa e mi tiro su fino al chiodo che mi resta in mano rimandandomi nel vuoto appeso alle maniglie sulla corda fissa. Sono appeso come un salame e tra le mani ho la staffa e il chiodo a “U”, al quale era attaccata. Guardo il buco da dove è uscito e vedo che il chiodo era piantato nel ghiaccio, su uno strato di una decina di centimetri… siamo sostanzialmente appesi ad un enorme lastrone incollato al granito rosso del Torre!!! Avviso Pino che rimetterò il chiodo e di stare attento. Sputo un paio di volte sulla lama del chiodo a “U” –così gela meglio- e lo rimetto al suo posto. Avviso Pino che mi ha appena espresso un suo preciso parere in merito a quanto accaduto con un delicato “vadavialcu… set dre a fa!” – vaf…. cosa stai facendo!-).

Riprendo a salire e in pochi minuti arrivo in sosta, fuori dal tiro verticale. Mentre recupero Pino mi guardo in giro. Mi pare d’essere sulla luna, anche se non so com’è fatta. Ad un paio di tiri da me vedo Miro alle prese con un muretto di ghiaccio poroso. I minuti passano in fretta. Pino è con me; la parete è coricata e la corda fissa, frazionata ogni tanto dai chiodi messi da Miro, ci permette la salita di conserva. Ben presto arrivo da Zenin, mentre Miro è gia lontano sopra di lui. Mi fisso al chiodo; recupero Pino che arriva a razzo. Siamo fermi in tre su un chiodo! Pino guarda Zenin, suo compagno di cordata di tante scalate: poi guarda me! il messaggio è chiaro; non sarebbero necessarie altre parole, o oggi o mai più.

Mariolino (Zenin) dice che, secondo ciò che il Miro gli ha appena detto, dovremmo essere in zona cima. Sto vivendo una strana situazione, il cielo è a tratti blu scuro, tanto è sereno, e qualche secondo dopo veniamo avvolti dalla nebbia. Miro recupera Zenin e mentre sale, stende la fissa per noi. Guardo in basso verso il Filo Rosso: è molto lontano, circa 1500 metri più in basso e vedo la spumeggiante cima della Torre Egger che finalmente vediamo dall’alto verso il basso. Miro ha appena detto a Zenin di aver visto il Fitz Roy per qualche minuto durante la traversata sulla parete sinistra dell’ultima anticima. Ciò significa che mancano poche decine di metri alla vetta.

Parte Pino e qualche istante dopo non lo vedo più; la corda si sfila con una continuità impressionante. Parto anch’io, risalgo una parete inclinata completamente imburrata di neve porosa, aggiro una spalla e vedo tutte e tre i miei compagni di scalata. Miro mi dice con tono imperioso: …”Ciapin, moves, go bisogn la corda” (Ciapin, muoviti, ho bisogno della corda): tolgo il rotolo del cordino dallo zaino e gli passo l’asola di testa. Mi fa piacere essermi ricongiunto a Miro, mi sembra che emani strane energie positive e mi da una carica straordinaria.
Miro attacca lo strapiombino alto circa cinque metri che sta sopra di noi; infila le due piccozze nella neve porosa dalla parte dell’asta e pian piano sale. La spalla sottostante è sufficientemente agevole e mi viene naturale spostarmi sotto di lui per scattare un paio di foto in mezzo a quei formidabili cavolfiori di neve.
Miro mi dice di togliermi da dove mi trovo: non faccio in tempo a riporre nella tasca della giacca a vento la macchina foto che mi ritrovo spiaccicato nella neve con il Miro sopra di me. Si rimette in sesto: è irritato come raramente l’ho visto, mi dice che se mi fosse entrato nella testa un chiodo o una piccozza avremmo mandato sui fichi tutto il lavoro di due mesi! Sono demoralizzato e capisco Miro, ma ero troppo attratto da quelle meraviglie.

Miro riprende con una foga pazzesca e con l’incazzatura che ha addosso supera in pochi minuti lo strapiombo. Non lo vediamo più, la corda scorre velocemente poi si ferma. Parte nuovamente Mariolino; io lo seguo a due metri: la scalata è splendida, aggiro la spalla e vedo Miro, in alto alla parete bianca, sotto il fungo della vetta… mi corre un brivido dietro le spalle che mi sale verso la testa. Il fungo finale mi sembra impossibile, ma è una visione dell’altro mondo! Non perdo tempo e scalo velocemente: arrivo in sosta dietro Mariolino e, mentre recupero Pino, Miro riparte di nuovo. Miro sta dando un’accelerazione folle alla scalata, sono circa le 16,30 ed abbiamo circa sei ore e mezzo di luce. Significa che “se arriveremo” in vetta, per tornare al campo dell’Elmo senza bivaccare in parete occorre essere in cima non più tardi delle 19... Miro raggiunge l’ultima spalla sotto al fungo. Zenin riparte ed io con Pino lo seguiamo, di conserva.

Siamo tutt’e quattro sotto la parete di circa trenta metri. Casimiro ci guarda senza parlare. Prende da Mariolino tutti i chiodi da ghiaccio che ha e riparte. Sale direttamente verso la parete, ma dopo qualche metro si ferma. La crosta di ghiaccio è troppo sottile e non riesce a mettere chiodi. Si abbassa di qualche metro e si ferma di nuovo. Il vento è quasi assente; le nubi circondano la cima del Torre e noi siamo appollaiati sulla spalla come fossimo tre condor in attesa del pasto! Il cielo è ancora più blu del blu! Miro si gira verso di noi, ci guarda attonito, poi ci dice con voce ferma …”traversi a destra” (attraverso a destra). Miro procede molto lentamente e mentre lo assicuro, Mariolino riprende con la cinepresa la scalata di quel fantastico traverso. Io guardo Pino e lui guarda me: siamo terrorizzati che Miro possa arrendersi… la cosa non è poi tanto peregrina: se Miro non passasse, nessuno di noi in quel momento avrebbe la forza di continuare.

Miro procede lentamente; si trova a metà traverso, sotto di lui ci sono circa mille metri di parete! Lavora il ghiaccio con una calma disarmante: sembra un orafo! Ancora qualche metro e scompare dietro la parete del fungo. Mariolino sente la corda tirare e parte. Lascio che arrivi alla fine del traverso e poi parto anch’io. Pochi metri e mi trovo al centro del traversata: sono allibito! Casimiro, con pochissimi chiodi infissi, esclusivamente per sicurezza, ha superato la parete del fungo scalando su uno spessore di ghiaccio poroso alto una spanna. Non c’è che dire: è un gran maestro! Non guardo in basso… è meglio per me e per la mia psiche: osservo bene ciò che sto facendo e con l’aiuto della fissa, arrivo nel conoide dietro al fungo. Recupero Pino che arriva velocemente, intanto Miro sale verso la cima, che dovrebbe essere a pochi metri da noi.

La nebbia va e viene e le folate di vento si sono fatte più insistenti. Miro è sopra di noi una decina di metri e nella nebbia non riesce a trovare un passaggio degno di quel nome: mi chiede di verificare dietro la crestina di ghiaccio che sta a circa cinque metri da me. Mi sposto senza problemi, attraverso nel bel mezzo di un cavolfiore di ghiaccio e osservo che il pendio sale verso l’alto senza grosse difficoltà. Confermo a Miro quanto ho visto: si sposta verso destra; aggira anche lui la costola e sale velocemente. Non lo vediamo più. La corda si ferma. Sentiamo Miro battere un chiodo lungo tubolare, dal suono sordo, poi la corda riparte velocemente. Sono impaziente, grido a Casimiro se è in vetta, ma non mi risponde.

Mariolino parte ed io sono dietro di lui di qualche metro. Pino mi osserva con il suo sorriso felice e mi dice… “stavolta ghe sem, Ciapin”… (stavolta ci siamo, Ciapin). Mariolino raggiunge il chiodo che si trova prima di una paretina verticale, lo supera e scompare. Io tiro diritto, faccio lo stesso e, a un tratto, vedo due sagome colorate su una grande spianata di neve. Faccio qualche passo in piano, mi viene incontro Miro che mi abbraccia singhiozzando. Mi stringe forte e mi dice: …“Ciapin, et vest che ghe lem fada”?... (Ciapin, hai visto che ce l’abbiamo fatta?): mi corre una strana sensazione nel corpo, prendo la corda e recupero subito Pino. Mi rendo conto: sto piangendo come un bambino, ma è così che va ed è così che deve essere. Mariolino è abbracciato al Miro… girano su se stessi… sembrano pazzi! Arriva anche Pino che abbraccio. Anche lui piange… Miro e Zenin si avvicinano e ci abbracciamo tutti insieme… è finita finalmente!

Sono le 17 e 45 del 13 gennaio 1974. Non ci rendiamo ben conto della dimensione di ciò che abbiamo fatto, ma siamo sicuri che la cima è stata raggiunta non solo da noi quattro, ma anche dai nostri compagni che sono scesi al campo 5 all’Elmo per consentirci un assedio prolungato di questa meravigliosa e difficile montagna. Anche chi è stato al Torre prima di noi, Bonatti con Mauri nel ’58, i ragazzi della Spedizione del C.A.I. Belledo con mio fratello Robi nel ‘70 e tutti i lecchesi che ci hanno sostenuto, sono con noi sulla cima di questa grande Torre.

Siamo avvolti nella nebbia e folate di vento forte ci fanno capire che non possiamo fermarci troppo. Scattiamo qualche immagine e giriamo gli ultimi metri di film che Mariolino si è portato per tutta la salita. Poi Pino si toglie la giacca a vento, si leva il maglione dei Ragni di Lecco e si rimette nuovamente la giacca dicendo: …”adesso che siamo qui, possiamo fare una bella cosa, così che dicano per sempre che il Cerro Torre è dei Ragni: costruiamo un fantoccio di neve, lo riempiamo con la ferraglia avanzata e gli mettiamo il mio maglione, così iscriviamo il Torre al Gruppo Ragni”… Così fu!
Poi venne la discesa e il ritorno alla vita di sempre

di Daniele Chiappa

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Fleursdumal

फूल की बुराई
A Mountain Unveiled
A revealing analisis of Cerro Torre tallest tale.
Di Rolando Garibotti
Pubblicato nell’American Alpine Journal 2004, pagine 138 a 155. Per l’articolo originale in linguainglese rivolgersi al sito www.americanalpineclub.org


Se qualcuno vi dicesse di avere appena corso 100 metri in 20 secondi, scrollereste le spalle edireste: “e allora?” Invece, se qualcuno vi dicesse di avere impiegato 9 secondi sareste esterrefatti escettici, e vi verrebbe naturale chiederne le prove. I racconti di alpinismo a volte rientrano nell’ultima categoria, e se le prove non sono sufficienti, ci si ritrova a dover fare i conti con lo scottante problemadi come valutare le varie rivendicazioni.
Non è compito dei giornalisti dubitare delle parole degli alpinisti, ma quello che possono e chedovrebbero fare è ottenere dei resoconti convincenti delle scalate prima di riconoscerne il valoreeffettivo. E’ indispensabile che i redattori di giornali e riviste non siano dei creduloni, dal momento che tutti facciamo affidamento sull’accuratezza dei loro dati.
Uno dei casi più noti nei tempi moderni è l’affermazione di Cesare Maestri di aver portato a termine, in soli 7 giorni, la prima ascensione del Cerro Torre, nel 1959, compiuta con l’austriaco Toni Egger che, secondo il racconto di Maestri, cadde e morì durante la discesa portandosi dietro l’unica macchina fotografica. Mentre questa supposta scalata fu inizialmente creduta sulla parola, gli alpinisti cominciarono gradualmente a volerci vedere più chiaro. La presunta impresa di Maestri ha chiaramente sorpassato i traguardi più alti del suo tempo in termini di difficoltà, velocità e stile. Il grande alpinista francese Lionel Terray l’ha definita “la più grande impresa alpinistica di tutti i tempi”, una definizione che potrebbe andar bene ancora oggi considerando che la via rivendicata da Maestri non è ancora stata
ripetuta, nonostante i numerosi tentativi di alcuni tra il più grandi alpinisti del mondo.
Il verticale Cerro Torre è situato nel massiccio di El Chalten, nella Patagonia meridionale, in un gruppo di cime spettacolari che include il ben noto Cerro Fitz Roy. Il Cerro Torre è una delle montagne più stupefacenti del mondo e sarebbe anche tra le più difficili se non ci fosse la Via del Compressore della cresta sud-est. Maestri era quasi riuscito a scalare questa via nel 1970 quando, usando un
compressore, piazzò circa 400 chiodi a pressione per arrivare ad un punto circa 35 metri sotto la vetta,
scalata che lui considerò come valida.
A partire dalla fine degli anni ’60, si cominciò a dubitare seriamente della supposta scalata del
1959. Tali dubbi nacquero inizialmente in Italia da gente come Carlo Mauri, un rispettato alpinista di
Lecco che aveva tentato la scalata al versante ovest del Torre nel 1958. Successivamente furono i
britannici a mandare avanti l’indagine, in particolare Ken Wilson, redattore della rinomata rivista
“Mountain Magazine”. Più tardi, la questione era destinata a diventare sui giornali un argomento fisso
di innumerevoli articoli. Maestri ha avuto numerose opportunità di presentare uno scenario credibile in
conferenze, interviste e articoli sulle riviste, ma invece ha continuamente fallito nel fornire una
descrizione convincente. Ancora oggi la controversia rimane irrisolta.
Visto che nel 2004 si commemora il trentesimo anniversario della prima scalata indiscutibile del
Cerro Torre (portata a termine dalla numerosa squadra dei Ragni di Lecco guidati da Casimiro Ferrari
attraverso il versante ovest), sembrerebbe opportuno arrivare a una conclusione sull’argomento. Questa
bella salita rimane oscurata dalle rivendicazioni del 1959 e dall’incompleta ascensione del 1970 fatta
con l’aiuto dei chiodi a pressione.
Cresciuto nella Patagonia del nord, ho avuto l’opportunità di scalare nel gruppo del Chalten
innumerevoli volte, di salire molte torri della zona, compresa la prima scalata completa del versante
nord del Fitz Roy nel 1996, e la prima ascensione in stile alpino del versante sud-ovest del Fitz Roy nel
1999. Cominciai ad interessarmi all’episodio di Egger e Maestri dopo aver incontrato molti tra coloro
che erano legati alla storia di questa zona, compresi, tra gli altri, Folco Doro Altan, Walter Bonatti,
Cesarino Fava, Casimiro Ferrari, John Bragg, e Jim Donini. Avendo capito che c’erano seri dubbi sulle
rivendicazioni di Maestri, e che c’erano diversi aspetti chiave non risolti in precedenza, decisi di fare
delle ricerche in materia nella speranza di far luce sull’argomento.
I primi tentativi di convalidare le tesi di Maestri fallirono nel tentativo di tener conto di tutto il
materiale disponibile: una delle maggiori difficoltà apparentemente era la varietà di linguaggi in cui le
informazioni rilevanti erano disponibili. La mia conoscenza delle lingue in questione è stata
fondamentale durante le ricerche per quest’articolo. La mia analisi è basata innanzitutto sui vari
resoconti scritti da Cesare Maestri e Cesarino Fava, molti dei quali ho tradotto personalmente dagli
originali in italiano. I resoconti di Fava sono importanti, considerando la rivendicazione di aver scalato
insieme a Egger e Maestri fino al Colle della Conquista (il colle tra Torre Egger e CerroTorre) durante
la presunta prima scalata. Siccome nessuna traccia del passaggio del trio è mai stata trovata oltre i 300
metri della prima parte della parete e le relazioni di Maestri oltre quel punto sono vaghe e
contraddittorie le descrizioni di Fava meritano un’attenta ispezione.

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