Cesare Maestri racconta la tragedia sul Cerro Torre
Un urlo, ma Egger fu strappato via
Durante la discesa la temperatura in aumento trasformò le pareti incrostate di ghiaccio in una trappola micidiale
Pubblichiamo, benché giunto con molto ritardo, dato il suo eccezionale interesse, il resoconto della drammatica scalata del Cerro Torre, in Patagonia, che Cesare Maestri ci ha inviato dal campo base: come è noto, in questa difficilissima impresa ha trovato la morte il compagno di cordata di Maestri, Toni Egger, austriaco, ritenuto uno dei più grandi alpinisti del mondo. La seguente relazione, di fonte autentica, rettifica varie circostanze della sciagura, quali erano state pubblicate da vari giornali.
Dal campo base, febbraio
Alle ore quindici del trentuno gennaio un improvviso e caldo vento dall'ovest fa scattare ad una ad una le trappole che salendo abbiamo lasciato aperte lungo la paurosa e ripida parete nord-ovest dei Cerro Torre.
L'altimetro segna 250 metri oltre la quota conosciuta della cima del Torre. Non c'è tempo da perdere. Assicurati con le piccozze piantate fonde nella neve per non essere strappati dal vento facciamo sventolare cinque piccole bandiere: l'italiana, l'austriaca, l'argentina, quella della città di Trento e la fiamma della Società Alpinisti Tridentini. Poi, velocemente, le solite cose: fotografie, trangugiare in fretta l'ultima scatola di frutta sciroppata, scrivere su di un foglio i nostri nomi e depositarli su questa cinta di ghiaccio e scendere scendere con più velocità possibile.
Non c'è posto in noi per la felicità; un infinito senso di morte ci sovrasta. Sono circa cento ore che viviamo su questa lontana montagna patagonica, cento ore di fatiche che rappresentano per noi, in qualsiasi caso, l'ultimo atto di questa nostra avventura cominciata il 21 dicembre quando in compagnia di Toni Egger, Cesarino Fava, Angelo Vincitorio studente in medicina, Juan Pedro Spikermann studente in geologia, Augusto Dalbagni studente in chimica e Gianni Dalbagni studente in ingegneria, abbiamo lasciato Buenos Aires a bordo di un camion che ci portò in una settimana all'estancia «La Primera», posto di partenza per l'avvicinantento al Cerro Torre.
E' lunga la strada da Buenos Aires alla base del Torre, e noi abbiamo attraversato questa immensa e piatta Patagonia, un po' in camion, un po' a cavallo e un po' a piedi. Ma quello che conta è che tutti hanno lavorato bene. Abbiamo fatto un lavoro da formiche portando i mille chili di carico dalla estancia «Fitz Roy» fin qui, ai piedi del Torre.
Settimana di maltempo
In 10 giorni di continuo e massacrante lavoro riusciamo ad installare 3 campi. Il primo alla Laguna Torre a 750 metri di altitudine, il secondo ai piedi del «Mocho» a quota 950 ed il terzo a 1.650 metri, un buco di ghiaccio esattamente a 200 metri dalla formidabile parete che ci sovrasta.
Il giorno 9 cominciamo il duro lavoro di salire e scendere per la parete est attrezzando, con corde fisse, i metri che faticosamente conquistiamo.
Ma il maltempo ci blocca due settimane continue. Vento e neve, sempre, di giorno e di notte, finché lentamente si riaffaccia il bello. Arriva così il 28 gennaio quando in silenzio Fava, Egger ed io ci leghiamo alla base della parete est.
Fava è carico come un mulo. Risaliamo velocemente, usufruendo delle corde fisse, tutto il primo diedro e poi il secondo, arrivando dopo undici ore alla piccola forcella a nord del Torre. Da qui possiamo vedere tutta la parete nord nord-ovest.
Due sarebbero le soluzioni: attraversarla tutta per entrare in un gran camino che sembra porti alla base del grande strapiombo di ghiaccio orientato a sud-ovest per poi riattraversare in alto verso nord-ovest. Ma in alto ci sono grandi funghi di neve e molte cornici da superare.
La seconda sta sopra alle nostre teste. Sulle ripide placche a destra dello spigolo nord che scende qui alla forcella si è accumulata molta neve portata dal vento e gelata dal freddo, formando una ripidissima parete di ghiaccio.
Toni ne prova la resistenza. Il ghiaccio sembra tenere, però il suo spessore non supera mai i cinquanta centimetri.
Il tempo tende al bello e fa freddo. Ci guardiamo tutti e tre. Questa volta, o mai. Ma sappiamo che se la temperatura risale, questa parete diventerà una trappola.
Nessuno di noi parla, in silenzio accettiamo tutto quello che dovrà avvenire. Fava scende, solo. Sparisce veloce lungo la corda doppia. Restiamo soli Toni ed io. Abbiamo con noi duecento metri di «perlon», 50 chiodi da ghiaccio, 50 chiodi normali e 50 ad espansione.
L'ascesa nel vento
Prepariamo il bivacco mentre il tempo migliora ogni momento. Una sera fredda e calma ci lascia riposare, ma la notte è subito passata. Bisogna partire. Il freddo è intenso; decidiamo che Toni, più veloce e leggero di me, salga per primo. Io cercherò di ricuperare tempo salendo da secondo il più veloce possibile. La neve «porta» bene e Toni è un artista sul ghiaccio, fa quello che vuole; dal canto mio cerco di risparmiare tempo.
Tutto il giorno dura questo rincorrersi per questa ripida e pericolosa parete divenuta di ghiaccio, finché la pendenza diminuisce ed arriviamo su ghiaccio vero dove i chiodi possono entrare profondamente e non per pochi centimetri. Ora non sentiamo più il rumore sordo dei nostri passi che rimbombava paurosamente.
Alla sera del 29 abbiamo fatto 350 metri ma sopra di noi rimane molto da fare. Il tempo si mantiene bello. Scaviamo
la nostra tana, mangiamo e beviamo tè caldo.
La mattina del 30 riprendiamo a salire obliquando verso destra. Andiamo a comando alternato e buchiamo due grandi coni di ghiaccio che richiedono molto tempo.
Canali formati dal vento ci aiutano a salire e ricuperare un po' di tempo perduto; arriviamo alla sera del 30 sul pianoro, a circa 150 metri dalla cima. Ancora una tana per la notte, ancora la preoccupazione di quello che sarà la discesa.
Ed arriva la mattina del 31. Il primo salto di circa 70 metri è ripidissimo, quasi verticale, ma saliamo senza fermarci. Per un canalino facile ma pericoloso ci alziamo un bel po' fino ad un altro piccolo pianoro.
Fa molto caldo e dall'ovest comincia a soffiare un fortissimo vento caldo; acceleriamo l'andatura. Toni al termine della sua filata di corda mi urla: «la cima». Salgo di corsa con un sapore di fatica nella gola. A circa 50 metri sta la cima. Saliamo assieme mentre il vento continua a soffiare con violenza.
Ci sembra impossibile. Io non sono felice, è una cima come le altre. Quanta fatica, quanto rischio, quanti fattori estranei all'alpinismo m'hanno dato la forza di salire! No, non sono felice.
Mangiamo qualche cosa, fotografiamo le bandierine che non possianto attaccare alle piccozze perchè ci servono ad ancorarci alla cima tanto è forte il vento. E poi scendere il più velocemente possibile, lasciando sulla cinta qualche impronta e il vento che gioca con una latta vuota.
Ci fermiamo al bivacco del 30. II vento continua, sembra che sopra di noi corra continuamente un treno. Dalla cima cominciano a discendere grosse slavine. La notte passa, male, sappiamo che cosa ci aspetta più sotto.
Scendiamo per tutto il giorno 1, il vento caldo rende tutta la neve come poltiglia che si stacca e precipita rumorosa. In dieci ore riusciamo a scendere solo 400 metri. La sera ci sorprende poco sopra la forcella. Scendere è qualche cosa di tragico: il calore, sciolta la neve che ci aveva permesso di salire, lascia pulita la roccia. Nessuna possibilità di piantare chiodi normali. Ogni corda doppia dobbiamo piantare due chiodi a espansione sotto il continuo bombardamento di grosse slavine. Ma anche la sera dell'uno ci vede vivi.
Il tempo ormai è «caduto», non c'è più nulla da fare. La notte passa fra il rumore del vento e delle valanghe. Il 2 febbraio continuiamo a scendere lungo le placche che sono coperte di un leggero strato di neve spazzato continuamente dal vento e dalle valanghe.
La tremenda valanga
Per scendere adottiamo il sistema che si usa nei salvataggi: uno si lega attorno alla corda doppia e l'altro lo cala di peso a carrucola su due moschettoni frenanti. Dobbiamo fare così altrimenti le corde verrebbero portate via dalla forza del vento. Arriviamo così verso le 19 del 2 febbraio a circa 150 metri dalle corde fisse.
Decidiamo di passare la notte sulla cima di un piccolo nevaio pensile. Pianto tre chiodi e cominciamo a fare il buco per passare la notte. Ma a Toni questo posto non sembra tanto sicuro, vuole vedere a destra più in basso se c'è una sistemazione migliore fuori dal tiro delle valanghe.
Mentre lo calo ed egli è arrivato a una quindicina di metri da me, un rumore assordante mi fa alzare il capo: una enorme massa di neve e ghiaccio si tacca dalla cima.
Urlo: «Attento, Toni» e mi appiattisco contro la parete.
Un colpo sordo e la corda si tende, Toni è investito e coperto dalla valanga. Un pezzo di ghiaccio mi colpisce duramente alla testa.
La tensione della corda diventa insopportabile, poi si rilascia. La valanga continua a cadere con sempre minore forza finché solo pochi pezzi di ghiaccio passano fischiando. Il piccolo nevaio è stato letteralmente spazzato.
Chiamo Toni. Nessuno risponde. Non rimane nessuna speranza. La valanga ha portato con sè tutto l'occorrente per bivaccare. Mi rannicchio nel mio buco di neve e aspetto che passi questa notte tremenda. Sapevo fin dall'inizio che sarebbe dovuta finire così e che domani sarebbe stata la volta mia.
All'alba del 3 febbraio esco dal mio buco come un condannato a morte. Comincio a scendere a corda doppia con lo spezzone che mi rimane, dalla cima continuano a cadere valanghe.
Dopo varie ore, arrivo finalmente alle corde fisse. La parete è un inferno. A pochi metri dal cono di deiezione mi scivolano i piedi e non riesco più a tenermi con le mani; volo così per circa una diecina di metri, la neve caduta durante la notte mi accoglie materna ed attutisce il colpo. Lo spirito di conservazione mi porta attraverso il tormentato ghiacciaio a circa 300 metri dal campo tre dove mi trova Cesarino per caso, molte ore dopo, in uno stato di semi-incoscienza, mentre balbettavo: «Toni è caduto».
Su questa montagna dopo circa duecento ore Toni ha perso la vita, ha pagato a caro prezzo il suo sogno, ma ora dorme tranquillo. Non lo disturberà mai più il freddo o l'urlo del vento. Dorme avvinto nei colori delle bandiere chehanno sventolato sulla cima. Il celeste del cielo, il bianco della neve, il verde dei boschi e il rosso del calore. Lui ora dorme, ha lasciato a noi il doloroso racconto e un vuoto incolmabile nell'alpinismo mondiale e nei nostri cuori.
Cesare Maestri